Fargo

Fargo, seconda stagione: il successo o l’insuccesso del sogno americano

A costo di cadere nella banalità, anche quest’anno devo dare i miei pieni voti a Fargo, ai fratelli Coen, a Noah Hawley e a tutto il cast della seconda stagione.

Probabilmente è fin troppo facile, perché questa serie non ha difetti, non ha cadute. È ammiccante, salace, lineare e contorta allo stesso tempo, amara, spiazzante, esilarante.

Nonostante sia cruenta e imperdonabile, è inevitabile ridere e sorridere nell’assistere agli equivoci e alle peripezie in cui piombano i protagonisti della storia. Il fatto che si parta sempre dall’equivoco credo sia un elemento connotativo fondamentale, quasi a voler dire che la vita stessa è un equivoco, è quella cosa che ti capita tra un progetto e un altro, proprio mentre fantastichi su come vorresti costruirtela, arrangiartela.

Di seguito sono presenti SPOILER.

kirsten-dunst-fargoLa stessa vita di Peggy Blomquist (Kirsten Dunst), ad esempio, è una continua deviazione da ciò che questa donna vorrebbe realizzare. Ma proprio da questa deviazione si scopre poi una seconda Peggy, che lei stessa non sa di custodire dentro.

Ho trovato magnifica e assolutamente ben costruita tutta l’alternanza di premesse, flashback e flashforward, un modo per tessere una trama complessa, fitta di inneschi, mai scontata e che stuzzichi l’appetito. Meravigliosa la prima sequenza di scene sul backstage di un film in bianco e nero che si intitola “Massacro a Sioux Fall”, creando una premessa che lì per lì resterà in sordina, poco notata e che lo spettatore non sa contenga già in nuce la soluzione dell’intera serie. Sarà infatti l’indiano Hanzee Dent (Zahn McClarnon) a dare il colpo di grazia risolutivo a tutta la storia di faide, equivoci, vendette e caccie all’uomo. E probabilmente, ci dirà la voce narrante, sarà proprio il retaggio da pellerossa che farà scattare in lui quella ribellione covata e repressa per secoli e generazioni e, quindi, quello spirito di rivalsa che con spudorata freddezza si riverserà contro tutto e tutti, senza clemenza alcuna.

Ed e Peggy_brokenFargo non lesina poi le parentesi di assurdo conficcate nel bel mezzo di discorsi e situazioni del tutto divergenti: come l’attenzione per uno shampoo e per la fibra dei capelli che sbuca in una discussione tra gangster su come meglio far fuori la famiglia Gerhardt; o ancora il soffermarsi su particolari linguistici tra un criminale e l’imbranato venditore di macchine da scrivere, suo debitore. La domanda è sempre una: cosa c’entra?! Ma c’entra, c’entra eccome e tutto contribuisce a creare quell’effetto grottesco e alienante che si traduce in quelle cinque lettere: F A R G O

Uno degli aspetti stranianti che ho apprezzato di più è la metafora aziendale di tutta l’organizzazione mafiosa dei ceffi di Kansas City. Assistiamo a una vera e propria presentazione aziendale che esplora le possibilità di espansione della criminalità organizzata della città nell’arco dell’anno a venire. Il tutto avviene con tanto di proiezione di lucidi che recitano “Kansas City – Strategia di espansione a nord. 1979 -1980”. E questo filo conduttore rimarrà nascosto lungo tutta la serie per riaffiorare alla fine, quando l’assurdità prenderà forma definitiva: il killer spietato, sarcastico e impassibile, Mike Milligan, interpretato da Bokeem Woodbine, dopo una serie di fallimenti e dopo aver raggiunto, finalmente e per puro caso (ma questo il capo non lo sa) l’obiettivo assegnatogli, viene promosso al rango superiore: contabile. Il capo dei capi, quello che nel primo episodio assisteva alla presentazione, rimanendo nascosto nel buio e nel fumo da cui trapelavano soltanto dei vetri di occhiali, nell’ultimo episodio esce fuori in tutta la sua… mediocrità. Un manager, un mediocre, piatto ma lungimirante uomo d’affari, che con poche battute secche e veloci smonta la delusione e le aspettative di Milligan e gli dice, in sostanza, “svegliati, non siamo più negli anni ’70, l’unico vero modo di fare affari rimasto in piedi è uno e uno solo: i soldi, e non i soldi intesi come estorsioni e botte di qua e di là. No. I soldi intesi come profitti e perdite, come investimenti. Questo è il futuro. Mettiti un vestito grigio e una cravatta, tagliati i capelli e inizia a giocare a golf; mai tanti affari sono passati da un campo di golf.”

hanzee_ FargoQuattro battute e la sintesi di decenni di una società passata dalle stelle alle stalle: il disgregarsi di tutto, di sogni, prospettive, futuro, programmi, ambizioni. Soldi e solo soldi, tutto riversato nelle mani della dea Finanza. E ciò vale per tutti, pure (e soprattutto) per i criminali, che se una volta ammazzavano gente per strada, oggi stanno dietro le scrivanie, timbrano il cartellino, giocano a golf e riorganizzano il sistema delle Poste, per dirne una.

Fargo, tra un’inquadratura e l’altra, prende in carico porzioni intere della storia americana e le dissacra, e così facendo smonta tutto il mito non solo degli States, ma di quel mondo che guarda ad essi con ammirazione e, troppo spesso, con devozione.

La parte più bella, profonda e significativa l’ho trovata nel breve monologo di Betsy Solverson (Cristin Milioti), in cui sintetizza con timore e profetica rassegnazione il crollo, o se non altro l’incrinatura, del sogno americano. Innanzitutto è qui, grazie a questo espediente narrativo, che troviamo il nesso tra la prima stagione di Fargo, ambientata nel 2006, e la seconda, ambientata nel 1979, periodo, peraltro, in cui si preparano le elezioni che vedranno Reagan divenire prossimo presidente USA. Molly, la figlia di Betsy, è la Molly Solverson della prima stagione di Fargo, la poliziotta arguta che avrà pure ereditato la testardaggine dal padre, ma di sicuro l’ironia sarà tutta quella della mamma. Lou (Patrick Wilson), quindi, è il poliziotto in pensione della prima stagione. In questo sogno, Betsy vedrà una proiezione ottimistica dei decenni a venire; un futuro quasi incantato e luminoso in cui verranno inventati aggeggi all’avanguardia, in cui sorgeranno luoghi dove tutto ciò che si desidera può essere trovato e portato a casa con estrema facilità (i centri commerciali); un futuro prospero in cui sua figlia e suo marito troveranno un posto sicuro nella realtà che vivono, avranno figli e nipoti, un caldo nido d’amore… il migliore dei sogni americani, insomma. Senonché, la stessa Betsy ci racconta, questo sogno è minacciato dal caos incombente, incarnato proprio dalla figura dell’indiano Hanzee. E cos’è questo indiano se non la peggiore delle persecuzioni degli americani, la loro nemesi, il peccato da espiare e per via del quale, minacciati dal terrore, mai riescono a mettere a segno il loro grande sogno: la libertà sempre e dovunque. Prima gli indiani, poi i russi, poi i cinesi, ora l’Isis… Forse sto forzando un po’ troppo la mano (o forse no).

Reagan for President_FargoAd ogni modo non riesco a non rintracciare in ogni angolo di questa serie una sorta di risata stizzosa e beffarda verso tutto quello che forse è una “mera illusione”, per usare le parole della stessa Betsy, la cui malattia, a mio parere, è l’altra faccia del tanto frustrato sogno americano: è la metastasi di un cancro inarrestabile.

La stessa fine di Ed e Peggy la dice lunga sul sogno americano. Una soffoca le proprie ambizioni e la propria identità sessuale dentro la clessidra dei sogni di Ed, l’altro ripiega i propri sogni su una moglie fantomatica che lui idealizza fino a forzarne l’immagine, ma che non vede realmente. E la loro fine di coppia non è quella tipica del film americano, strappalacrime e sonora, no: è una fine in cui finalmente Ed si leva i paraocchi e capisce di aver sposato la moglie sbagliata, e lo capisce proprio mentre Peggy comincia ad adeguarsi al ruolo di moglie ritagliatole addosso e si mostra pronta a convertire il suo destino verso quello del marito, rinunciando a tutto il resto. Troppo tardi, lui muore. Ironia del destino. Non che non ci sia da piangere, sì, ma di lacrime amare. Et voilà: tutto il clamore femminista degli anni ’60 e ’70 si spegne così, in un’allucinazione tra l’eroismo di un film sulla seconda guerra mondiale e un incendio che non c’è… verrebbe da dire tutto fumo e niente arrosto.

Un altro momento di femminismo sbriciolato e gettato via? Il dialogo tra Floyd Gerhardt (Jean Smart) e Simone Gerhardt (Rachel Keller), la giovane ed esuberante nipote: nel momento in cui la nonna si appresta a dirle che adesso, finalmente, è il loro momento di prendere le redini della famiglia, il momento delle donne per farsi avanti, non fa in tempo a finire la frase che una pioggia di proiettili sventra stoviglie e aspirazioni, senza distinzione alcuna. La nipote finirà poi ammazzata, e proprio dalla “famiglia”. La nonna finirà a piegarsi, seppur in parte, al nemico peggiore: la polizia. Verrebbe da dire non è un paese per donne.

Un encomio speciale a tutto, ma proprio tutto, il cast tra cui, Kirsten Dunst (Peggy Blumquist) dalla mimica facciale estasiante, Patrick Wilson (Lou Solverson) occhi di ghiaccio, Jesse Plemons (Ed Blumquist) panzone impensabile (giusto due anni fa in Breaking Bad era un fusto magro e atletico), Ted Danson (Hank Larsson) sceriffo e sostenitore ottimista di una sorta di lingua Esperanto, Zahn McClarnon (Hanzee Dent) l’indiano risolutore, Bokeem Woodbine (Mike Milligan), i fratelli Man (Gale e Wayne Kitchen) e.. insomma tutti.

fargo-ufo-motel_incredibile ma veroUltimo plauso va a mister ufo, una delle incongruenze assolutamente congrue di Fargo. Che ci fa un ufo sopra una cittadina periferica degli USA di fine anni ’70? Eh, che ci fa? La sua pare essere una presenza risolutiva, non meno di quella dell’indiano. La prima volta leva di mezzo Rye Gerhardt (Kieran Culkin), l’ultima volta che appare salva la vita a Lou. Più volte durante la serie vediamo apparire di sfuggita la fase “sono tra di noi”, altra grande ossessione degli americani. E sono proprio questi “altri” che, alla fine, risolvono tutto. Quindi che c’entra? Non lo so, ma ci sta!

Un cenno speciale merita la strabiliante colonna sonora, più beffarda, in alcuni momenti, che mille parole.

La seconda stagione di Fargo è già stata candidata a svariati premi, tra cui il prossimo Golden Globe in cui figura con le candidature come miglior miniserie, miglior attrice protagonista con Kirsten Dunst, e miglior attore protagonista con Patrick Wilson.

Vi lascio con l’ultima chicca: la famose voce narrante della stagione è proprio quella di Martin Freeman.

La terza stagione? Sì, Fargo è stata rinnovata!

E voi, cosa ne dite? Piaciuta la seconda stagione di Fargo? Voti, opinioni? A voi la palla!

Valeria Susini

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Lola23

Lunatica, incasinata, perennemente indecisa, una ne faccio e mille ne penso. Quattro elementi chiave della mia vita: Famiglia, Mare, Etna, Scrittura. Le serie TV sono il Quinto Elemento, una vera e propria dipendenza, meglio farsene una ragione. Le mie preferite? Non chiedetemelo! Vabbè, ve ne dico 3: Six Feet Under, The Wire, Treme... Mad Men! Ah sono 4... Ve l'ho già detto che non so decidere?
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