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The Americans: apologia della lentezza

“Miglior stagione di una serie drama da diversi anni a questa parte” è una delle frasi che nelle passate settimane sono state spese dalla critica televisiva statunitense per definire la terza stagione di The Americans.

Seguono pesanti spoiler sulla terza stagione di The Americans, se non l’avete ancora vista non continuate nella lettura.

Vulture, AV Club, Slate, Grantland, Entertainment Weekly, tutte le principali testate specializzate hanno tessuto le lodi per lo stile narrativo lento, slow burning, dello spy drama creato da Joe Weisberg. Il plauso della critica non basta però ad ottenere un vasto successo di pubblico. Sarà la narrazione eccessivamente lenta, o l’ambientazione retrò, o il fatto che un buon terzo dei dialoghi viene pronunciato in russo, ma non c’è dubbio che i rating siano sempre stati poco più che modesti, sino a trasformarsi in preoccupanti per tutta la terza stagione. Nonostante ciò, in virtù di alcune dichiarazioni risalenti a diversi mesi fa, in cui i capoccioni della FX accennavano alla volontà del network di concedere alla serie un arco narrativo di cinque stagioni, Weisberg e il suo team di autori hanno deciso di scommettere pesantemente su questa fiducia e hanno allestito una terza stagione fortemente influenzata dal legame con lo schema generale delle cose, la cosiddetta big picture.

La prima stagione è servita a costruire una relazione che fino a quel momento era strettamente di copertura ed emotivamente quasi unilaterale, sbilanciata in direzione di Philip, già consapevole del legame che lo legava ad Elizabeth, compagna di vita e spionaggio. La scoperta di un sentimento reale tra i due protagonisti, ha permesso di introdurre uno dei leitmotiv della serie, ossia le conseguenze emotive, etiche e morali del lavoro di spie al servizio dell’Unione Sovietica sulla vita sentimentale e familiare della coppia. La seconda stagione infatti ha introdotto la tematica genitoriale culminata con la rivelazione del season finale sulle intenzioni del Centro di arruolare Paige nel programma spionistico come agente di seconda generazione. La terza stagione ha continuato a percorrere il percorso tracciato nella seconda stagione, lo ha approfondito e portato alle sue estreme conseguenze.

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La terza stagione è stata un vero e proprio ottovolante emotivo per Philip ed Elizabeth. Da una parte hanno continuato a sentire l’irresistibile pulsione ad avvicinarsi, ad affidarsi alle cure dell’altro. Paige, nel secondo episodio intitolato Baggage, dice in maniera molto eloquente: “you always look out for each other”, evidenziando così la complicità della coppia, da cui gli stessi figli si sentono in qualche modo estranei, esclusi. In tredici episodi abbiamo assistito a momenti memorabili  per intensità e forza emotiva, come la cruenta intimità dell’estrazione di un dente da parte di Philip ad Elizabeth, in un gioco di sguardi che esprime più emozioni di un intero monologo; il raro e inaspettato momento di relax alla finestra, in cui i nostri Nadežda e Misha si lasciano andare e si ritrovano a ridacchiare come adolescenti sotto l’influsso di alcune foglie di marijuana di primissima qualità; oppure il momento di dolorosa sincerità in cui Philip afferma di aver a tratti bisogno delle sue abilità di spia per attraversare i peggiori momenti nella sua relazione con Elizabeth. Sono momenti brevi, poveri di parole ma ricchi di espressività e significato, affidata principalmente all’abilità dei due interpreti, Matthew Rhys e Keri Russell e alle scelte di regia, mai stata così brillante. Nel polo opposto invece troviamo un’altra pulsione, altrettanto potente, che non fa altro che allontanare Philip ed Elizabeth. L’occasione è la gestione di Paige e l’opportunità o meno di portare avanti le direttive del Centro sull’arruolamento, ma la realtà delle cose è che a dividere le due spie sono le differenze insormontabili nella visione del mondo di entrambi. Quando nel season finale Philip esprime del rimpianto per non aver avuto modo di conoscere la madre di Elizabeth, lei risponde prontamente: “you wouldn’t have liked her”. Elizabeth non ha mai mostrato di provare per la madre sentimenti diversi dall’amore e soprattutto dall’ammirazione, eppure non ha esitato a dire che a suo marito lei non sarebbe piaciuta. Mi pare un esplicito riconoscimento delle sostanziali differenze caratteriali tra i due, fino a quel momento ignorate perché troppo dolorose da affrontare.

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Ronald Reagan e il discorso sull’evil empire

Il climax della stagione è stato costruito a partire dall’episodio in cui Paige viene finalmente a sapere della verità sui suoi genitori, fino a culminare con la telefonata con cui la giovane dimostra di non essere ancora abbastanza forte da sopportare il peso del segreto e rivela tutto all’amico e confidente, il pastore Tim. Da qui in poi è tutto territorio inesplorato e non voglio inoltrarmi in mezzo alle teorie che riguardano i possibili futuri scenari. Ho la mia idea ma scelgo di non proporvela perché, a parer mio, non è la cosa più importante accaduta in quella stessa scena. Mi riferisco allo shot finale, in cui assistiamo a qualcosa che covava fin dai primissimi minuti della serie, ossia il crollo emotivo di Philip. Il lavoro ha sempre avuto conseguenze più evidenti su Philip che su Elizabeth, protetta dallo schermo dell’ideologia che le permette di razionalizzare almeno in parte gli aspetti più difficili della missione, rispetto al cinismo disincantato di Philip che lo rende perciò più vulnerabile alle conseguenze interne di ogni atto di violenza o crudeltà che si è ritrovato costretto a commettere per la causa (non riesco a non tornare con la mente al rapimento di Anton Baklanov nella seconda stagione e alla scena in macchina tra i due). In questa scena finale vediamo appunto Philip, provare a fatica ad esprimere alla moglie Elizabeth quei sentimenti che era riuscito ad esternare con sorprendente facilità davanti a Sandra, la moglie di Stan, in occasione del loro bizzarro incontro al seminario EST. Philip fatica, si ritrova praticamente a balbettare tanta è la difficoltà ad esprimere ciò che sta provando, finché non viene bruscamente interrotto da Elizabeth, ansiosa di ascoltare un discorso di Reagan alla televisione. La stagione si chiude con Philip sullo sfondo, che pian piano rimpicciolisce e si sfuma, mentre Elizabeth rimane in primo piano ma quasi si fa da parte, lasciando il palcoscenico a The Gipper, Ronald Reagan, e al suo celeberrimo discorso sull’evil empire indirizzato all’Unione Sovietica e pronunciato l’8 marzo del 1983 (che non a caso è anche il titolo dell’episodio), in un momento storico di fondamentale importanza in questa fase finale della Guerra Fredda. Elizabeth ignora la richiesta di soccorso del marito per ascoltare un importante discorso politico, ma lo fa anche perché non vuole ascoltare cosa il marito ha da dire. Sa di cosa si tratta e ne ha paura. Ciò che è stato costruito con grande fatica e dolore durante la prima stagione è stato lentamente eroso durante la terza e con ogni probabilità danneggiato in maniera definitiva. La vera sfida sarà adesso capire se tra le due pulsioni di cui parlavo sarà la prima a trionfare, oppure se l’impossibilità di comunicare prenderà definitivamente il sopravvento. Tutto questo senza avere la minima idea di ciò che sta accadendo nella stanza accanto, dove Paige sta giocando una mano capace di far saltare il banco.

PENSIERI SPARSI

Holly Taylor, l’interprete della giovane Paige, è stata la vera rivelazione della stagione. In un mondo televisivo tempestato di teenagers insopportabili (non c’è bisogno di specificare a chi mi riferisco), l’abilità di mostrare il dolore provocato dal conflitto interiore di questa giovane attrice è straordinaria. La transizione tra la rivelazione e il twist finale è del tutto naturale e non viene mai percepita come frutto di un capriccio o di una crisi isterica. Mi pare questo uno di quei casi in cui il casting influisce positivamente sulla narrazione, permettendo agli autori di sfruttare il talento di un attore o attrice, fino a quel momento rimasto nascosto o ignorato a causa della giovane età.

Se devo trovare un piccolo difetto a questa stagione, si trova proprio nell’eccessivo affidamento sul rinnovo per la quarta stagione. Nel corso dei tredici episodi i Jennings hanno portato avanti troppe missioni, gestendo contemporaneamente diverse risorse spionistiche. Tutto ciò ha avuto l’effetto di costringere gli autori a concentrarsi su poche questioni per volta, finendo per ignorarne alcune per settimane. La vicenda della giovane Kimmy, che nella prima metà della serie aveva colpito per la sua abilità di condizionare lo stato emotivo di Philip in quanto genitore, è stata messa da parte per tutta la seconda metà della stagione. In altri momenti è stato difficile ricollegare tutti i passaggi della storia, come nella storyline di Lisa e del suo lavoro alla Northrop. Ma il caso più clamoroso è quello di Martha. Dopo la sconvolgente rivelazione di Philip culminata col gesto altamente simbolico della spogliatura dalla parrucca avvenuta alla fine del penultimo episodio, nel season finale troviamo solamente un semplice accenno allo stato emotivo della donna da parte di Philip, senza alcun passaggio sullo schermo. Un momento così importante meritava di essere approfondito subito e non lasciato da parte per la stagione successiva.

La Storia con la S maiuscola è stata come al solito un personaggio poco invadente ma importante. Il 1982 e 1983 sono stati un periodo di nuovo “riscaldamento” della guerra fredda, coinciso con la nuova corsa agli armamenti e un atteggiamento sempre più aggressivo da parte delle due superpotenze. L’invasione sovietica in Afghanistan, la collaborazione americana con i mujaheddin, e i rapporti con il regime razzista del Sudafrica sono le principali tematiche storiche affrontate nella stagione, almeno fino ai momenti finali, dove ascoltiamo le reali parole di Reagan, passate alla storia col titolo di discorso sull’evil empire. Arriveremo mai a sentire Reagan gridare “Mr.Gorbaciov, tear down this wall?”

The Americans è una serie drammatica, cupa, a volte fin troppo. I momenti di leggerezza sono distribuiti con fin troppa parsimonia e quasi sempre sono affidati a Henry Jennings, l’ennesima vittima della sindrome da “figlio minore in una serie drama” della quale soffrono anche Chris Brody, Bobby e Gene Draper e Anthony Soprano Jr. Nonostante ciò le sue imitazioni di Eddie Murphy e le partite a Strat-O-Matic, insieme alla crisi di nervi dell’agente Gaad che si sfoga sul robot della posta, sono stati quasi gli unici momenti in cui la serie mi ha strappato un abbozzo di risata.

Le citazioni dalla cultura pop dell’epoca sono distribuite con quasi altrettanta parsimonia e per questo motivo sentire uno spot promozionale per il series finale di M.A.S.H andato in onda il 16 febbraio 1983, nel quale si menziona la fine di una lunga guerra, è un vero tocco di classe.

Che sia questo l’anno giusto per veder riconosciuto il talento di Matthew Rhys e Keri Russell? Se dovessi scegliere gli episodi da sottoporre all’Academy avrei grosse difficoltà a decidermi.

Chiudo con un momento musicale tratto da una delle scene più tenere, quella tra Philip e Kimmy che si ritrovano ad un certo punto a condividere la musica degli Yaz, in un momento che dovrebbe essere sensuale ma che in realtà rivela il bisogno di entrambi di rafforzare un legame genitore-figlia percepito come assente.

Fatemi sapere che ne pensate nella sezione commenti e досвидания товарищи, arrivederci compagni!

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talpa10

29 anni, blogger su itasa dall'estate 2014 con una predilezione per i series finale. Sono sempre stato un fedele suddito di HBO ma negli ultimi anni ho trovato rifugio sicuro tra le braccia di FX. Nick Miller e Ron Swanson i miei spiriti guida
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