Prima edizione nel 2018 della rubrica che ogni mese vi consiglia perle cinematografiche più o meno conosciute, le prime due appartenenti al secolo passato e le ultime due al millennio in corso. Ecco i consigli per questo gennaio:
IL FERROVIERE, 1956, di Pietro Germi
Pietro Germi, uno dei più grandi registi italiani del ventennio 1950 – 1960 nonché uno dei più influenti della storia italiana (è grazie al suo capolavoro Divorzio all’italiana che si deve l’espressione popolare “commedia all’italiana”) pur essendo pressoché sconosciuto al pubblico medio odierno. Piuttosto che le sue commedie sofisticate, a cui viene automaticamente accostato, preferisco parlare di questa sua perla drammatica meno celebre ma ugualmente meritevole. Il semplice fatto che il maestro Ermanno Olmi l’abbia definita “un’opera sublime” dovrebbe bastare a convincere qualunque amante della settima arte a recuperarla, ma è giusto fare comunque una breve presentazione.
Il ferroviere segue le vicende di una famiglia proletaria di Roma negli anni ’50: abbiamo Andrea Marcocci (interpretato dallo stesso Pietro Germi), un ferroviere alcolista, la moglie Sara (Luisa Della Noce), la figlia incinta di nome Giulia (Sylvia Koscina) e infine figlio più piccolo Sandro (Edoardo Nevola) che è anche il narratore della pellicola. Ognuno di essi deve affrontare tragedie più o meno grandi che vanno dall’aver sfiorato un massacro (nel caso di Andrea) al dover sposare un uomo che non si ama (nel caso di Giulia). Sandro vive gli avvenimenti che travolgono la sua famiglia con la spensieratezza e l’incomprensione che solo i bambini possono avere, mentre una tragedia dietro l’altra gli sfreccia davanti agli occhi e di cui non riesce a coglierne il senso. Questa sua purezza interiore sarà uno dei pochi appigli su cui la famiglia poggerà per costruirsi una nuova vita in una metaforica apertura verso il futuro, in tutte le incerte sfaccettature che offre.
Di base il film dovrebbe essere un melodramma strappalacrime ma lo sguardo sottile, profondo e soprattutto sincero di Germi riesce a rendere il tutto come un dramma psicologico familiare teso e toccante ancora oggi. Il taglio neorealista dell’opera aiuta sicuramente nell’impresa, a mio parere infatti ciò che più di tutto eleva il genere del neorealismo tra i migliori movimenti della storia è l’assoluta onestà intellettuale che si cela nelle analisi dei personaggi: che siano un pensionato e il suo cagnolino in Umberto D. o un soldato afroamericano e il suo amico teppista nel secondo capitolo di Paisà, il giovane assassino Edmund di Germania anno zero o il timido impiegato Domenico de Il posto, dietro ai protagonisti di questi capolavori si cela un abisso di umanità che ancora oggi è profondo tanto quanto lo era nel giorno dell’uscita nei cinema. Sono opere eterne, collocate sì in un contesto storico-politico ben circoscritto ma che funge da trampolino di lancio per un’analisi immortale delle debolezze e contraddizioni umane.
Il ferroviere non arriva a essere paragonabile a simili pietre miliari, soprattutto perché pecca in una narrazione per certi versi prevedibile e sicura, ma non per questo non merita di essere visto da chiunque sia appassionato al cinema post-bellico italiano.
PAPER MOON, 1973, di Peter Bogdanovich
Il celebre critico cinematografico Peter Bodganovich ritorna nel 1973 alla regia con uno dei suoi film più acclamati e ricordati ancora oggi: Paper Moon.
Siamo nel Kansas, nel bel mezzo della Grande depressione degli anni ’30. Moses Pray (Ryan O’Neal) è un truffatore di basso livello che è specializzato nel vendere bibbie a donne diventate vedove; un giorno scopre di dover accudire una bambina di nove anni, Addie (Tatum O’Neal), dopo che sua madre è morta, affinché egli la accompagni a casa di sua zia. Tutti infatti sospettano che Moses sia suo padre e lui stesso ne ha il forte sospetto, ma preferisce dimostrare un distacco con la ragazzina. Il loro rapporto avrà numerose evoluzioni e involuzioni durante il viaggio attraverso l’America rurale, tra una truffa e l’altra che li condurrà a essere ricercati dalla polizia.
Innanzitutto è necessario elogiare la sceneggiatura a dir poco ferrea del film, trovare dei lungometraggi scritti con un tale precisione al giorno d’oggi è quasi impossibile: nulla è lasciato al caso o è usato come riempitivo, e ciò lo si nota dal fatto che pressoché ogni frase espressa dai due protagonisti verrà ripresa più tardi acquisendo nuovi significati, o semplicemente un fattore comico di assoluta finezza. Ciò è voluto per omaggiare le commedie di Howard Hawks e Billy Wilder, anch’esse scritte con questo gusto ossessivo per l’incasellamento in cui nulla viene tralasciato o dimenticato. Il secondo motivo per cui questa pellicola è imperdibile ancora oggi è il ritmo visivo e la bellezza estetica: Bogdanovich chiese persino consiglio a Orson Welles su come migliorare l’aspetto visivo del film, e ciò portò l’opera a essere composta principalmente da long take e da un’ampia profondità di campo. Il ritmo delle discussioni e degli eventi viene quindi conferito soprattutto dalla direzione degli attori che risultano calati perfettamente nel ruolo, e a buon motivo: i due sono nella realtà padre e figlia. Doveroso anche menzionare il fatto che Tatum O’Neal, all’età di 11 anni, ha vinto l’Oscar per la miglior attrice non protagonista proprio per questa interpretazione ed è tuttora la più giovane vincitrice del premio. Si tratta quindi, in ogni caso, di un piccolo pezzo di storia del cinema.
In sintesi è un film da consigliare per chiunque ami il cinema della commedia sofisticata americana, a chiunque apprezzi grandi messe in scena di attori e chi vuole ricredersi sulla diceria secondo cui qualunque film contenga dei bambini protagonisti non possa essere una grande opera. Bogdanovich è qui per smentirvi clamorosamente.
SICILIAN GHOST STORY, 2017, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
10 minuti di applausi al Festival di Cannes nel 2017 per un’opera controversa, rischiosa ma sicuramente interessante come quella creata da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza: Sicilian Ghost Story.
La storia del film è fondamentalmente tratta da una storia vera, quella dell’omicidio del quindicenne Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido dalla mafia dopo una prigionia di due anni per tentare di zittire suo padre (collaboratore di giustizia e pentito di mafia). Tale tragica vicenda viene abbinata nella pellicola a una storyline parallela riguardante l’amore giovanile tra lo stesso Giuseppe (Gaetano Fernandez) e una ragazza di nome Luna (Julia Jedlikowska), che prosegue ininterrottamente anche durante la prigionia e si scontra con la decisione intransigente delle due famiglie: da una parte la famiglia di lui, decisa a non fermarsi e continuare a collaborare con la giustizia, e dall’altra la famiglia di lei, ben consapevole della situazione politica e convinta quindi di dover allontanare Luna da Giuseppe. La fantasia e la tensione verso la speranza, il sogno di riconciliarsi, è ciò che terrà in vita entrambi i ragazzi negli anni di distanza. Sicilian Ghost Story è fondamentalmente un noir con un retrogusto fiabesco, e non me la raccontano giusta il produttore Massimo Cristaldi e il direttore della fotografia Luca Bigazzi quando lo hanno presentato al Noir Festival sostenendo che il lato noir fosse solo una piccola parte e che il fantasy fosse predominante. La pellicola è infatti gelida e lapidaria nella quasi totalità del tempo, i pochi momenti di serenità che possono far intuire una svolta fantasy decisa si risolvono invece puntualmente in una tragedia sempre più cruda e difficile da digerire, tra tutti la gita al lago di Luna e suo padre (Vincenzo Amato) che diventa poco dopo l’occasione per Luna di tentare il suicidio.
Non è un film dai buoni sentimenti, la fantasia è un motore immobile invisibile che guida i due protagonisti e li tiene uniti ma per la quasi totalità del tempo è soprattutto una sensazione più che una certezza, mentre sono una certezza gli atti via via sempre più efferati e disumani che i mafiosi compiranno, come rivolgersi al loro prigioniero unicamente come fosse un cane rabbioso. Ancora più straziante è la scena dello strangolamento e della dissoluzione nell’acido, che per onestà intellettuale non ci viene risparmiata (pur evitando dettagli grafici, sarebbe stato a dir poco fuori luogo estetizzare una violenza di questo tipo). Ciò che rimane di tutto questo è una sconfinata amarezza in bocca, quella che viene quando si ha la certezza di aver assistito a una tragedia non necessaria, che poteva essere evitata in innumerevoli modi a partire dall’omertà del contesto sociale in cui la storia si colloca (accentuata dalle scene scolastiche riguardanti Luna). L’ultimo appiglio che il film offre è quell’ingenua (ma profondamente umana) speranza, l’ultima fiamma di redenzione che rimane ancora accesa e che non permetterà mai di smettere di sperare.
Uno dei migliori lungometraggi italiani della scorsa annata, ma ciò che mi ha reso felice è il fatto che non si tratti dell’ennesimo polpettone mafioso senza nulla da dire che le produzioni italiani ci rifilano, come accade da troppi anni a questa parte… per quanto mi riguarda ciò si tratta di per sé un grande risultato.
GOOD TIME, 2017, di Ben Safdie e Joshua Safdie
Distribuito in Italia pochi giorni fa sulla piattaforma Netflix, la quinta opera dei fratelli Safdie si presenta come il loro migliore lavoro in assoluto e una delle opere più acclamate del 2017.
Il film inizia con una lunga scena in cui Nick Nikas (interpretato dal regista stesso, Ben Safdie), un uomo con un evidente ritardo mentale, sta parlando con il suo psichiatra Peter (Peter Verby). Quest’ultimo cerca di fargli affrontare il passato, ponendolo di fronte ai conflitti che ha in famiglia. La scena è lenta, meditativa e profondamente tesa, e alla fine Nick sembra volersi aprire con lo psichiatra… ma di punto in bianco piomba nello studio suo fratello Connie (Robert Pattinson) che lo prende a forza e lo trascina con sé a compiere una rapina in banca. Da qui in poi il film è un’unica interminabile discesa verso gli inferi della criminalità di New York, mentre Connie cercherà in ogni modo di recuperare 10.000 dollari per la cauzione del fratello, che è stato nel frattempo arrestato e rinchiuso nella prigione del Rikers.
Quello che inizia come un classico crime-thriller vira sempre di più verso il profondo noir (tragico e senza speranza come la tradizione insegna), diventando persino grottesco e surreale nella seconda metà. Tra omicidi, furti d’identità, scambi di persona, rapimenti, infrazioni, suicidi, stupefacenti e cacce al tesoro di soldi sporchi, la notte di Connie diventa presto una disavventura lisergica a cui sarà impossibile porre un freno, e che decreterà la sconfitta di chiunque ne verrà coinvolto. La ciliegina sulla torta è il finale, tra i più originali che mi sia capitato di vedere nell’intera annata: tragico, commovente in una maniera sottile e immensamente beffardo. Ciò che rende l’intero film elettrizzante però non sono tanto la trama, la regia o le interpretazioni (comunque tutto materiale di qualità altissima, sia ben chiaro) ma la colonna sonora. Composta da Oneohtrix Point Never, un artista di Brooklyn a dir poco osannato nel campo della musica ambient elettronica nonché uno dei capostipiti dell’estetica vaporwave, con le parti cantate da nientepopodimeno che Iggy Pop: un lavoro enorme che gli ha permesso di vincere il premio come Miglior Colonna Sonora allo scorso Festival di Cannes. Le sonorità conferiscono a ogni scena una venatura elettrica, instabile e oscura creando un perfetto parallelismo con l’ambientazione, ovvero i bassifondi notturni di New York, e la caratterizzazione del protagonista stesso (violento, instabile, animalesco e irrefrenabile)
In sintesi uno dei migliori neo-noir che abbia visto negli ultimi anni, una pellicola che qualunque cinefilo apprezzerà almeno in minima parte. Impossibile non consigliarlo a qualunque essere senziente.
Come al solito fateci sapere nei commenti se avete visto questi film e cosa ne pensate, o se avete particolari richieste per edizioni future!
Alessandro
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