Ogni tanto usciamo fuori dal panorama filmico e telefilmico americano, giusto per prendere una boccata d’aria e per buttare un occhio nel giardino di casa nostra, perché nonostante tutto qualcosa di buono si trova sempre. È il caso di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film pluripremiato di Gabriele Mainetti all’edizione 2016 dei David di Donatello, gli Oscar del cinema italiano.
Proverò a restare spoiler free (peraltro, le citazioni che trovate di seguito sono estrapolate dal trailer) per il semplice motivo che Lo chiamavano Jeeg Robot è un film essenziale, basato su uno schema narrativo semplice eppure ben sviluppato, attraverso continui riferimenti alla mitologia dell’anime giapponese e alla contemporaneità del contesto in cui il film è ambientato. Siamo infatti in una Roma terrorizzata da bombe che esplodono random e dove un misantropo Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) sbarca il lunario borseggiando il malcapitato di turno. Durante una classica “giornata lavorativa” Ceccotti riesce a scampare a un arresto nascondendosi nel Tevere, entra in contatto con dei non specificati rifiuti radioattivi e acquisisce dei super poteri. Tutto “normale” fino a quando, dopo un affare di droga andato male, Ceccotti diventa consapevole dei suoi poteri e li usa per salvare Alessia (Ilenia Pastorelli), minacciata dallo Zingaro (Luca Marinelli) che gestiva quell’affare. L’ossessione dello Zingaro per lo schivo Ceccotti inizia a crescere perché è proprio grazie a quei poteri che lui potrà sfondare nel mondo del crimine.
«Te sei Hiroshi Shiba, te poi trasformà in un Jeeg!» – Alessia a Enzo Ceccotti
Lo chiamavano Jeeg Robot, innanzitutto, non è un film su Hiroshi Shiba e company: non lo vuole essere né, tanto meno, ci prova. E non è nemmeno una parodia del genere supereroistico. Anzi, Mainetti riesce bene a fletterne le pareti del genere riadattandole al background romano e contaminandolo con un massiccia dose di ironia tipica della borgata. Scordatevi le armature e le esplosioni in CGI made in USA perché non le troverete in Lo chiamavano Jeeg Robot. Certo il minimo sindacale è obbligatorio: «Però amore mio quando te trasformi te devi cambià ‘ste scarpe. Un supereroe con le scarpe de camoscio nun s’è mai visto, dai!», per dirla con le parole di Alessia. Quello che invece trovate sono ironia, ottima recitazione, una scrittura molto solida (la sceneggiatura è di Michele Guaglianone e Menotti), una giusta dose di umanità, la periferia romana e gli archetipi classici dell’eroe, del villain e della fanciulla in pericolo adeguatamente riadattati per lo svolgimento dell’azione. Tre personaggi sui quali si basa l’intero film e che lo fanno girare in maniera eccellente. Tre personaggi che condividono un’estrazione sociale bassa, vivono quello che dall’esterno è visto come degrado ma che per loro è la normalità. Non ci sono gli avvocati professionisti di Hell’s Kitchen o i miliardari di Gotham City, così come non ci sono i geni del crimine che vogliono conquistare la città attraverso dei piani studiati a tavolino. Siamo davanti a personaggi semplici, ingenui, istintivi e anche un po’ ignoranti, che tirano a campare attraverso espedienti quotidiani e che scassinano i bancomat non considerando l’inchiostro nero che segna le banconote in caso di forzatura. Sono personaggi che, come Alessia, nascondono la propria fragilità emotiva barricandosi dietro continue maratone di Jeeg Robot, al punto da farne la propria coperta di Linus e da immaginare che le vicende dell’anime si stiano verificando davvero. O come Enzo Ceccotti, una persona totalmente alienata, assorbita da una dieta a base di dessert alla vaniglia e porno vecchia maniera messi su DVD. O ancora come lo Zingaro, vittima delle sue manie di protagonismo e di quella cultura pop tipicamente italiana che si radica negli anni ’80 e di cui si fa baluardo intonando canzoni di Anna Oxa e Loredana Bertè (e non chiamatelo trash: il trash vero, semmai, è Wilma De Angelis che fa una cover di Bad Romance di Lady Gaga). Caratterizzazioni semplici, magari, ma che celano una giusta dose di profondità sulla quale poter basare le dinamiche tra i personaggi.
Mainetti gioca bene con gli opposti, contrapponendo all’eroe introverso e misantropo, un villain che sogna e vive per l’acclamazione pubblica: «Voglio che la gente se piega a pecoroni quando me incontra ppè salutamme» dice lo Zingaro a uno della sua cricca. Un’acclamazione che eravamo abituati a riservare all’eroe ma che adesso sembra spetti al cattivo (Walter White, Joker per darne due esempi fulminei); così come l’isolamento che caratterizza il cattivone di turno, chiuso nel suo covo a pianificare malefatte e che si circonda di gente solo perché gli fa comodo, adesso diventa quello che vuole stare sotto i riflettori. Ceccotti si definisce “amico di nessuno” mentre lo Zingaro vuole fare il botto, vuole prendersi Roma in pieno stile Banda della Magliana. Ceccotti è l’outsider il quale, visto che ha i poteri, pensa bene di usarli per dare una svolta a quel tenore di vita al confine del disagio, per poi assumere una veste opposta solo in virtù di un sacrificio estremo. Lo Zingaro, invece, è quello che quei poteri li vuole per avere il riconoscimento che pensa di meritare, quella rivalsa social che lo avrebbe lanciato nel mondo dello star system. Tra questi due opposti c’è Alessia, le cui turbe psichiche un fondamento ce l’hanno davvero, che diventa la chiave di volta della nascita dell’eroe. È il personaggio che dà spazio a un’introspezione più profonda, quella semplice e diretta e che non manca di colpire allo stomaco quando meno te l’aspetti. E allo stesso tempo è colei che indirizza sulla giusta strada il ritrovato Jeeg, senza dover ricorrere a panegirici sull’etica a scopi pedagogici (come era successo ne Il Ragazzo Invisibile di Gabriele Salvatores che aveva tentato un approccio al genere con risultati abbastanza deludenti). La ragazza svitata diventa in qualche modo la guida di Ceccotti, colei che lo porta a comprendere che da un grande potere derivano grandi responsabilità. Un codice etico ex novo che trova la sua applicazione nello scontro tra l’eroe e il villain, con un encore che sfocia in una lotta senza esclusioni di colpi.
«Io solo una cosa voglio sapè… ma tu chi cazzo sei?» – lo Zingaro a Ceccotti.
Già, ma chi è poi questo Jeeg Robot di cui si parla nel titolo? Jeeg Robot è nient’altro che un riferimento culturale. Come si sarà capito, Mainetti non adatta la storia del personaggio dei fumetti (come fanno Marvel o DC con i propri personaggi) ma la utilizza per dare vita a un racconto nuovo, utilizzando i linguaggi del noir, del gangster movie e dei film sui supereroi, strizzando l’occhio al passato storico italiano – con quelle bombe che ricordano il periodo delle stragi senza una matrice ben definita – e tratteggiando un contesto più contemporaneo a cavallo tra Gomorra e Suburra. Jeeg Robot è un espediente ma allo stesso tempo è il rappresentante di una generazione cresciuta a pane e Bim Bum Bam o, per essere più precisi, a pane e anime in onda sulle reti private. E proprio perché non c’è una cultura di riferimento prettamente italiana sui supereroi che Jeeg Robot assume quel valore simbolico e quella valenza di medium attraverso il quale filtrare la quotidianità in un gioco di contaminazione perfettamente calibrato. E Mainetti fa proprio questo, prende in prestito quella mitologia e la contestualizza nella periferia romana, infarcendola con riferimenti pescati dall’immaginario dei supereroi che tutti conosciamo: «T‘ha mozzicato un ragno, un pipistrello, sei cascato da n’artro pianeta?» domanda lo Zingaro. Mainetti, del resto, non è nuovo a esperimenti del genere: due cortometraggi, Basette del 2008 e Tiger Boy del 2012, avevano sottolineato la capacità di questo cineasta di attingere ai modelli dagli anime e trapiantarli sotto casa. E il grande pregio di Lo chiamavano Jeeg Robot sta proprio in questo: raccontare storie quotidiane utilizzando un approccio realistico e soprattutto fresco, insaporendole con elementi fantastici secondo una formula che, diamine, funziona alla grande!
Si vede che dietro c’è un lavoro di scrittura ben articolato: un’ottima sceneggiatura a cui si aggiunge un altrettanto ottima regia, soprattutto nelle scene di combattimento (girate con un budget limitato ma che non hanno nulla da invidiare a quelli di una Jessica Jones, ad esempio) e delle performance attoriali che sono un piacere per gli occhi. Più che di Claudio Santamaria, nome ormai consolidato nel cinema italiano, Lo chiamavano Jeeg Robot consacra, finalmente, uno straordinario Luca Marinelli (già eccezionale protagonista in Non Essere Cattivo di Claudio Caligari) e porta alla ribalta un’altrettanto eccezionale Ilenia Pastorelli, il cui curriculum, per adesso, conta solo una partecipazione al Grande Fratello del 2011.
Forse un finale un po’ didascalico ma che alla fine dei conti non pesa più di tanto sulla resa di un film che dimostra l’ottima padronanza del mezzo da parte del giovare regista. Con Lo chiamavano Jeeg Robot il cinema italiano ha finalmente messo piede in un genere nuovo, fino a ora ritenuto ad appannaggio dei colossi cinematografici oltreoceano, dando sicuramente un segnale di svolta e portando una ventata di novità. E se non altro, con questo film anche Tor Bella Monaca ha il suo vigilante.
givaz
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