Nuovo mese, nuovo appuntamento con la rubrica che vi consiglia il meglio che il cinema abbia da offrire.
Come sempre parleremo di due film appartenenti al terzo millennio e due pellicole del ‘900, ecco le opere del mese:
FUOCO FATUO, 1963, di Louis Malle
Correva l’anno 1963 quando Louis Malle diede vita a uno dei film più nichilisti e intrinsecamente disperati che il genere umano ricordi, ancora oggi preso come modello d’ispirazione per opere riguardanti temi come la depressione, l’apatia esistenziale e il suicidio. Non mi credete? Provate a guardarlo e poi rivedetevi I Tenenbaum di Wes Anderson. La sua influenza giunge anche a registi inaspettati.
Alain Leroy (Maurice Ronet) è un uomo francese di mezza età che è da poco uscito da una grave dipendenza dall’alcol. Fuori dalla clinica di riabilitazione non riesce però a trovare pace e medita il suicidio. Decide infine di darsi un’ultima occasione: 24 ore di tempo per ritrovare tutti i suoi amici, tutte le persone care che gli sono rimaste a Parigi, nella speranza di dare un nuovo senso alla sua vita. In caso contrario il giorno seguente si ucciderà.
Alain inizia così un’odissea verso una casa che non ha mai avuto passando da salotti bohémien a sontuose cene di aristocratici scambisti, intervallando il tutto con lunghe passeggiate attraverso le strade parigine. Quello che è uno dei simboli della Nouvelle Vague, le poetiche camminate sulle strade, vengono grazie a questo svuotate di ogni bellezza e spensieratezza. Ciò che rimane è un uomo condannato a morte che cammina lungo gelidi e piovosi viali, dirigendosi verso il patibolo creato da lui stesso.
Nel film sono presenti pochi dialoghi: i personaggi parlano spesso attraverso monologhi che si intersecano, e che non faranno cambiare di una virgola le loro precedenti posizioni. Alain cerca una verità che nessuno vuole dargli, o meglio l’unica verità che tutti sembrano suggerirgli è quella di vivere in modo superficiale la propria vita. Amore libertino basato sulla possessione della donna, droghe, alcol, vuote routine… un’eterna adolescenza fondata su bagordi e giochi. Questa è l’esistenza secondo loro, ma non secondo Leroy.
“Io non riesco a toccare, non riesco a toccare… nulla. E se anche tocco qualcosa non sento niente!”, con queste strazianti parole il protagonista descrive l’essenza del film: l’impossibilità di riconnettersi ai propri sentimenti in una società borghese, materialista e consumista, basata sulla sfrenatezza della superficialità piuttosto che su un’evoluzione intima che dia un senso alla vita umana.
Una pellicola che non lascia speranza ma che ha un messaggio forte e sempre attuale.
ARIZONA JUNIOR, 1987, dei Fratelli Coen
Classificato dall’American Film Institute come una delle migliori commedie americane di tutti i tempi, definito dal New York Times come uno dei 1000 migliori film di sempre, com’è possibile che questo piccolo capolavoro dei fratelli Coen sia così poco conosciuto dal grande pubblico?
“H.I.” (Nicolas Cage) è un criminale di basso rango dell’Arizona che si innamora della poliziotta Ed (Holly Hunter), conosciuta quando lei gli scatta una foto segnaletica. I due si sposano dopo che H.I. viene scarcerato e insieme vanno a vivere in una roulotte. Tutto sembra andare per il meglio, fino a quando i due scoprono di non poter avere figli; questa drammatica scoperta coincide con la notizia che una ricca coppia della zona ha appena avuto cinque gemelli. I protagonisti credono che questa disparità sia inaccettabile e decidono di rapire uno dei gemelli, Nathan Jr., per ricostruirsi una vita. Il rapimento però è solo la punta dell’iceberg dei problemi che dovranno affrontare.
Cosa rende Arizona Junior un film assolutamente unico? In primis il ritmo e la trama: è una screwball comedy che si fonda su molti livelli di narrazione (realtà, sogni, visioni, flashback, flashforward) e che non disdegna digressioni improvvise, che rendono impossibile prevedere l’esito della pellicola. Per esempio una scena banale come quella in cui H.I. va a comprare un pannolino si trasforma in un delirante e interminabile inseguimento tra lui, Ed, la polizia, un camionista, un branco di cani e dei commessi assetati di sangue attraverso negozi, case, strade e giardini.
In secondo luogo è doveroso menzionare uno dei villain più iconici che i Coen abbiano mai messo in scena: il Centauro dell’Apocalisse/Leonard Smalls (Randall Cobb). Un biker cacciatore di taglie senz’anima, assoldato dai genitori di Nathan Jr, il cui unico obbiettivo è annientare i due coniugi. Terrificante, surreale, grottesco ma assolutamente credibile all’interno dell’universo coeniano. Tutto questo però non risulterebbe efficace se dietro la macchina da presa non ci fossero due geni come i Coen; tutto è infatti messo in scena e in quadro con dei virtuosismi mozzafiato, un montaggio forsennato e una colonna sonora evocativa. Se volete una commedia con risvolti drammatici che vi prenda allo stomaco in tutto (risate, ritmo, commozione con un retrogusto amaro) non posso che consigliarvela.
Mi raccomando di una cosa: guardate il film in inglese! Non per questioni di purismo linguistico ma perché il doppiaggio italiano stravolge il senso del finale. La frase che conclude la pellicola è assolutamente fondamentale per comprendere come Arizona Junior riproponga la tipica poetica dei Coen. Non si sa per quale motivo nell’adattamento italiano è stata riscritta di sana pianta, azzerando il delicato (e al contempo micidiale) dito medio che la versione originale mostra al buonismo tipico delle commedie americane. Terribile davvero…
NIENTE DA NASCONDERE, 2005, di Michael Haneke
Michael Haneke, uno degli autori più amati e odiati al mondo intero. Il suo stile non accetta compromessi: si ama o si odia. Niente da nascondere è però il suo film più accessibile, nonché a parere di chi scrive il suo miglior lavoro dopo il capolavoro Funny Games.
Il film inizia con una lunghissima inquadratura fissa su una casa di Parigi. Dopo che sono terminati i titoli di testa, l’inquadratura si blocca e si riavvolge su se stessa: ciò che stavamo guardando era una videocassetta lasciata al protagonista della storia, il conduttore televisivo Georges Laurent (Daniel Auteuil). Perché mai qualcuno dovrebbe riprendere per ore la sua casa e inviargli la registrazione? Quello che si pensava essere lo scherzo di un ragazzo, forse un amico del figlio (Lester Makedonsky), si scopre essere l’opera di un conoscente intimo di George. Qualcuno con cui ha un conto in sospeso e che continuerà a tormentarlo fino a che non avrà portato a termine la sua tragedia personale.
Niente da nascondere propone diverse chiavi di lettura: innanzitutto c’è quella meta-cinematografica, i film nel film, la riproduzione della riproduzione (potenziata dalle libertà del digitale, metodologia con cui l’intero film è stato girato); tutto è giocato su ciò che è visto e ciò che è riprodotto, ciò che si vede nel presente e non si vede nel passato, non è un caso che l’apice emotivo dell’opera sia preceduto dall’emblematica frase “volevo che tu fossi presente“, ovvero il momento in cui presenza e visione coincidono per la prima volta nella pellicola. Un altro strato di lettura è quello riguardante l’analisi della cosiddetta “responsabilità collettiva” riguardante un tragico avvenimento di cui tutti si lavano le mani, giustificando il proprio operato; a questo livello si lega un’ulteriore e sottile lettura storico-allegorica delle conseguenze del massacro di Parigi del 1961 (in cui la polizia francese uccise e gettò nella Senna decine di protestanti algerini).
Senza addentrarci troppo in ognuno di questi strati, perché bisognerebbe rivelare la soluzione del mistero, ciò che possiamo dire è che questo sia un film dalla trama convenzionale ma messo in scena con uno stile assolutamente personale. La classica suspense da thriller di stampo hitchcockiano viene declinata in una lentissima e corrosiva sensazione di incertezza e di disonestà. Emozione creata grazie a uno stile di regia glaciale, distaccato, metodico ma mai noioso. La stanchezza non sopraggiunge perché è costantemente in atto uno scarto cognitivo enorme tra noi spettatori e tutti i personaggi, dato che sappiamo che ognuno di loro conosce un pezzo di verità che non ci viene detto né mostrato. Gli sforzi cognitivi per ricostruirla sono tali che il tempo per annoiarsi non si trova.
Un piccolo consiglio: nell’inquadratura finale state molto attenti a chi compare. La soluzione di tutto spesso è in piena vista, ma qui non ci sarà nessuno Sherlock Holmes che vi indicherà dove e cosa guardare.
IN BRUGES – LA COSCIENZA DELL’ASSASSINO, 2008, di Martin McDonagh
Siete appassionati di quel filone di dramedy pulp che Quentin Tarantino ha innescato? Siete reduci di The Boondock Saints e volete trovare un altro film in cui vi innamorerete di assassini, avrete una sceneggiatura a prova di bomba, un antagonista che non vi dimenticherete e delle ambientazioni memorabili? Ecco per voi In Bruges.
Debutto alla regia di Martin McDonagh, il film parla di Ray (Colin Farrell) e Ken (Brendan Gleeson), due sicari irlandesi che vengono spediti a Bruges, in Belgio, in attesa che il loro capo Harry (Ralph Fiennes) dia loro istruzioni sul loro prossimo incarico. I due assassini iniziano così a bighellonare per la città, fino a quando Ken non riceve finalmente gli ordini attesi: il suo prossimo incarico sarà quello di uccidere Ray, perché secondo il loro capo deve pagare per l’inaccettabile colpa di aver ucciso un bambino. Un atto considerato troppo grave da Harry, il quale possiede un rigido e immodificabile regolamento morale da seguire. I due sicari dovranno così cercare un modo per salvarsi la vita a vicenda prima che Harry in persona dia loro la caccia per ammazzarli.
La trama potrebbe essere quella di un qualunque action movie di serie B, l’asso nella manica di questo meraviglioso film è composto da tre elementi. Il primo riguarda i personaggi, che sono scritti alla perfezione e interpretati in una maniera altrettanto impeccabile. É impossibile non apprezzare ognuno di loro a causa del loro carisma, tra cui includo anche l’antagonista. Il secondo elemento riguarda i dialoghi: feroci, velocissimi, affilati come un coltello da caccia, tramortiscono per il loro impatto scenico e rimangono impressi a vita per la loro raffinatezza concettuale. L’influenza di Tarantino è determinante anche in questo campo. Il terzo elemento è l’ambientazione: il contesto antico, magico e sognante di una Bruges bella da togliere il fiato è il perfetto contraltare per una storia grottesca, sanguinosa e depravata come quella di una lotta tra sicari. Vi troverete a seguire con la stessa attenzione sparatorie e inseguimenti, e scene di dialoghi e riflessioni in riva ai canali della città.
Questa già indimenticabile comedy-pulp con venature drammatiche si conclude con un finale geniale e spiazzante, una conclusione che credo in pochissimi al mondo (se non nessuno) siano mai riusciti a prevedere, pur essendo di una coerenza assoluta con ciò che ci viene raccontato. Se volete sapere la definizione di “pistola di Cechov” guardatevi questo film e la scoprirete.
Un piccolo grande cult del terzo millennio che non può mancare.
Avete già visto questi film? Vi sono piaciuti? Oppure pensate di recuperarli? Come al solito fateci sapere nei commenti i vostri pareri!
Alessandro
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