Seconda tappa di questo viaggio che mitigherà l’attesa per la notte del 22 Febbraio. La notte in cui conosceremo trionfatori e vinti del premio cinematografico più ambito. Il Dolby Theatre è ancora lontano e direi che è ora di accendere il dibattito su quella che è sicuramente la pellicola più discussa tra le candidate: American Sniper.
LA TRAMA
Chris Kyle (Bradley Cooper) è l’emblema del rigido texano. Il padre gli ha insegnato da giovane a cacciare il cervo e da allora è un portento con il fucile. Fa il cowboy nei rodei. Nel 1998 viene a sapere degli attentati alle ambasciate americane in Africa, e il suo orgoglio sudista lo spinge ad arruolarsi nella marina. Qui, risolutezza e quel suo dono, lo trasformano in un cecchino dei Navy SEAL. Prima di partire per il primo turno in Iraq, conosce Taya (Sienna Miller) e i due si sposano. In guerra, non ci mette molto a costruirsi una gran reputazione. I suoi lo chiamano “Legend” e avanzano sicuri con il suo fucile alle spalle. Tra le file nemiche, una taglia fa di lui il principale bersaglio di Al-Quaeda. Sul campo è temerario ma durante i congedi, tra un turno e l’altro, è tormentato. Non sembra in grado di conciliare la normalità di quella vita con la quotidianità del medio oriente. E presto dovrà fare i conti con i veri orrori della guerra e con la sua nemesi, il misterioso cecchino che miete vittime incessantemente tra i suoi compagni. American Sniper è la vera storia di un uomo fagocitato dalla guerra. Il ritratto agghiacciante di un uomo che si spoglia della sua umanità per diventare eroe ed alimentare con la sua fama l’ipocrisia del sogno di libertà americano.
LA PRODUZIONE
Il film è l’adattamento cinematografico dell’omonima autobiografia del cecchino Chris Kyle che, durante il conflitto in Iraq, si è guadagnato il titolo di cecchino più letale nella storia degli Stati Uniti. Inizialmente sarebbe dovuto essere diretto da Steven Spielberg il quale, dopo la morte del protagonista, abbandonò il progetto per divergenze con la produzione. Clint Eastwood decise di prendere in mano il progetto che registrava già il nome di Bradley Cooper (The Hangover, Silver Lining Playbook, American Hustle) nel ruolo del cecchino e come iniziale produttore.
Nel 2014 al cast si aggiunsero la sua controparte femminile, Sienna Miller (The Girl, Alfie), e il resto dei secondari tra cui Luke Grimes (Brothers & Sisters), Jake McDorman (Greek), Kyle Gallner (Veronica Mars), Cory Hardrict (Lincoln Heights) e Sam Jaeger (Parenthood). Uscito nelle sale americane il 25 dicembre 2014, il film ha già conseguito molti record d’incassi tra cui quello personale del regista. È candidato agli Oscar in 6 categorie: Miglior Film, Miglior Attore Protagonista (Bradley), Miglior Sceneggiatura non Originale, Miglior Montaggio, Miglior Montaggio Sonoro e Miglior Missaggio Sonoro.
LA CRITICA
American Sniper è certamente il titolo più dibattuto tra gli otto in gara. La critica è nettamente divisa. Da un lato le opinioni favorevoli osannano l’aureo ritorno di Eastwood ai livelli che gli hanno garantito la gloria nella decade passata, plaudono una sorprendente performance di Cooper e scorgono nel film un brillante messaggio anti-war. Dall’altro gli sfavorevoli discutono di una trama piatta di propaganda guerrafondaia, dell’eroicizzazione di un assassino e della limitata rappresentazione del conflitto in Iraq. È un film con cui è difficile fare i conti perché indossa una maschera scomoda e richiede un serio sforzo d’interpretazione. Io devo ammettere che ho impiegato settimane a digerirlo. Con i titoli di coda è iniziato il mio calvario personale. Sul momento non sono rimasto deluso, ma non ho gridato neanche al capolavoro. Certo non discutevo la candidatura di Bradley e nemmeno le tre tecniche, ma la presenza tra le sceneggiature e soprattutto in Miglior Film mi lasciava alquanto perplesso. Riuscivo ad avvertire la confortante presenza morale del mio regista preferito, come una voragine nel buio, ma non ero in grado di darmene una spiegazione. Aveva l’odore di un passo falso, ma sentivo che c’era dell’altro.
Ogni film di guerra americano solleva il problema dell’interpretazione propagandistica, l’accusa di essere un astuto diversivo dalle scelte politiche. Alcuni di più, alcuni di meno. E ultimamente ho assistito ad una comoda semplificazione del giudizio per cui se la pellicola smaschera questa tendenza si grida al capolavoro, mentre se ne sfrutta il pathos patriottico, se non si pronuncia fermamente antibellica, viene subito definita “la solita americanata”. Ma il problema è nei geni stessi del genere, d’altronde la propaganda è la sua genesi.
Dopo un po’ di riflessioni sulla scelta del regista, sono riuscito a farmi un’idea più chiara delle ragioni che ne stavano alla base. Chi ha accusato Eastwood di essere un militarista, dovrebbe andare a rivedersi un po’ la sua intera carriera. Stiamo parlando di uno dei registi più naturalisti – in senso letterario – che ci siano. È un tecnico della percezione sensoriale, visiva e musicale. Tant’è vero che non si è mai dato alla sceneggiatura. E per tutta la sua interminabile carriera, il discriminante nella scelta di un film è sempre stato il personaggio. Un’ovvia conseguenza della sua affermazione come attore. Per quanto terribile, vi sfido a trovare un personaggio forte e controverso come quello di Chris Kyle. Il cocciuto texano che recita la parte dell’eroe americano per mascherare la sua totale assuefazione alla guerra, così terrorizzato dal mostro che c’è in lui da nascondere persino a sé stesso l’indifferenza per quegli orrori. Così a suo agio nella fama ottenuta da arrivare a convincersi di essere davvero un santo. Ecco, se devo muovere un’accusa al film, non ho apprezzato l’aver volontariamente omesso dalla trama ogni riferimento alla sua autobiografia, che avrebbe reso lampante il suo carattere autocelebrativo. Ma devo dire che le ragioni di questa scelta sono abbastanza ovvie. Fredde ma ovvie. E per restare sugli aspetti negativi: mi trovate però d’accordo se vi lamentate della candidatura della sceneggiatura. Quell’introduzione da The Natural, quei riferimenti da Deer Hunter, a decenni di distanza non hanno più la stessa forza drammatica. E i dialoghi tra i due protagonisti sono piatti, poco originali. Impoveriti dall’interpretazione della Miller che – a differenza di Cooper – ho trovato mediocre.
Detto questo – comunque la si voglia vedere – tutta la polemica che n’è scaturita è la prova che questa era una storia che andava raccontata. E sono contento che sia stato fatto con il filtro d’autenticità di Clint Eastwood. Poi, se vogliamo sempre andare a disossare substrati, forse un’autobiografia non è il luogo ideale.
Ma se proprio non potete farne a meno, vi consiglio di ponderare sui titoli finali. Io in quelle ultime immagini della parata c’ho letto un’accanita critica della realtà americana. Un attacco ai suoi miti, ai suoi estremismi riassunti nella figura dell’ordinario texano. Tanto esagerati da terminare in una messa quasi religiosa per un assassino, celebrata nel teatro emblematico della Dallas Cowboys Arena.
Alla fine ho accettato di buon cuore la presenza di American Sniper tra gli aspiranti a Miglior Film. Non vincerà ma è innegabile che il forte messaggio che porta con sé avrà in qualche modo segnato il 2014 cinematografico. E se dev’essere questa l’eredità di Clint Eastwood, posso farmene una ragione.
Matteo Pilon
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