Continua la partnership con Sentieri Selvaggi. In questo articolo, Valeria Brucoli ci propone una recensione del film Sin City – A Dame to Kill For.
La morte è esattamente come la vita a Sin City, vince sempre. E si consuma dietro ogni angolo, nei locali traboccanti di alcol e sesso, nei vicoli umidi della città vecchia e nei palazzi dei potenti. Sin City non perdona chi sfida le sue regole. Il potere è nelle mani di pochi e il senatore Roark, l’uomo più ricco e potente della città, ha al soldo scagnozzi sanguinari, pronti a torturare e a uccidere orrendamente chiunque osi scalare le vette dell’Olimpo per rubare la ricchezza degli eletti. Johnny (Joseph Gordon-Lewitt), giovane e spavaldo, lo sfida al tavolo da gioco e vince tutto ma, prima che riesca a sperperare l’ultimo dollaro in fiumi di champagne, paga il suo prezzo alla città del peccato. Come lui, anche la sensuale spogliarellista Nancy Callahan (Jessica Alba) ha il mirino puntato alla testa del senatore. Quell’uomo meschino le ha rovinato la vita: padre del viscido “Bastardo Giallo”, il serial killer che l’ha rapita da bambina, e assassino indiretto del suo cavaliere dall’armatura splendente Hartigan (Bruce Willis), l’uomo che l’ha salvata dall’incubo e l’unico che abbia mai amato. Psicologicamente distrutta, Nancy si consuma lentamente nello strip club del senatore e medita vendetta, mentre i demoni interiori la divorano e i fantasmi del passato la perseguitano fino al limite della follia.
La morte è lo scopo finale. Che sia la liberazione da una vita abietta, la vendetta della vita o il mezzo per raggiungere in fretta i propri obiettivi, come nel caso della dea di Sin City Ava Lord (Eva Green), la donna più bella e letale della città. Il suo corpo sinuoso emerge dall’acqua della piscina come da un bagno d’argento e si aggira tra le stanze lussuose della sua magione coperto solo da un velo. Nessun uomo può resistere ai suoi occhi magnetici e al suo corpo perfetto. Basta uno sguardo o la sua mano che corre vorace lungo il corpo per annebbiare la mente anche della persona più retta e metterla al suo servizio, per uccidere chiunque ostacoli il suo cammino. Dwight McCarthy (Josh Brolin) è la sua pedina, un uomo che ucciderebbe per lei. Dopo essere stato miseramente abbandonato anni prima, cade ai suoi piedi per una lacrima languida e il miraggio di una notte torbida al suo fianco. Il gioco è compiuto e un’ondata di morte torna a sommergere la città per i capricci della bella Ava.
Sono passati nove anni dal primo capitolo di Sin City, ma il suo mondo è intatto, marcio come al principio. La città del peccato è assetata di sangue come sempre, ma i suoi personaggi sono più cadenti, consumati dall’odio e dalla sete di vendetta. Nancy Callahan, l’angelo di Sin City, è l’ombra di se stessa. Perennemente ubriaca, volteggia sul palcoscenico come una marionetta vuota alla mercé del miglior compratore. E Dwight McCarthy si trascina tra i vicoli, completamente in balia di Ava, senza coscienza, dando alla sua vita lo stesso valore di una notte di sesso consumata in un motel. Sin City è l’ombra di ciò che era, una scena consumata dall’odio, in cui il bianco e il nero si confondono in un sottotono grigio, in cui non c’è più spazio per il bene. Il rosso del sangue, che all’inizio macchiava violentemente lo schermo, scorre per le strade senza attirare troppo l’attenzione.
L’immagine è rotonda, tridimensionale, e il contrasto netto con le tavole bidimensionali tratte dalla graphic novel in bianco e nero di Frank Miller, che era il tratto distintivo del primo Sin City, è ridotto al minimo. Robert Rodriguez usa il 3D per entrare nelle pagine della graphic novel, sentire l’odore di marcio che trasuda dalla città e palpare le curve della dea Ava; ma questa scelta, quanto mai efficace per quanto riguarda la resa filmica, pone questo nuovo capitolo su un livello diverso rispetto al primo, avanzando verso il cinema e facendo un passo indietro rispetto al fumetto. Anche la sceneggiatura, che salta avanti e indietro nel tempo rispetto agli episodi del primo capitolo, non è più una traduzione fedele dell’opera originaria, ma un prodotto originale che vive di vita propria. Miller ha conservato l’atmosfera cupa, ma ha dato un nuovo volto ai personaggi, che non riescono a nascondere i segni di una vita spietata e di un animo sfilacciato, e che vanno avanti in un presente brutale solo per vendicare i torti subiti più che per cambiare la loro storia, in cui le uniche incarnazioni del bene sono i fantasmi del passato.
Valeria Brucoli – Sentieri Selvaggi
Marco Quargentan
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