Negli ultimi anni c’è stato un gran parlare di come il cinema odierno si sia ridotto a produrre solo pellicole sui supereroi, o solo sequel, remake e reboot. Ritengo che questi discorsi da una parte abbiano un senso (anche se qui ci sarebbe da aprire un critica su chi incolpa l’industria, quando il vero danno sarebbe di chi quei film continua ad andare a vederli), dall’altra invece sono dell’idea che chi esprime questo pensiero spesso non si renda conto di quanto altro ci sia.
Non voglio incentrare l’articolo semplicemente su una dicotomia che divide i classici blockbuster hollywoodiani con una trama standardizzata che servono solo ad anticipare il prossimo film del franchise e pellicole spesso purtroppo sconosciute che invece hanno delle storie, personaggi e dialoghi ben pensati e ben scritti. Perché discussioni sulle differenze di sceneggiatura vengono affrontate moltissime volte in diversi modi e in diversi ambiti.
Vorrei invece concentrarmi su un qualcosa di più tecnico, sul come le classiche dicerie sui film odierni che non hanno altro da offrire se non miliardi di effetti speciali aggiunti in post-produzione siano piuttosto infondate. Sul come oltre a questi ogni anno, e nel 2015 in particolare, continuino ad essere realizzati film che incarnano la vera essenza del cinema. Sul come da questo lato l’industria non sia morta, ma anzi sul come sia piena di persone che amano la settima arte e vogliono valorizzarla nel modo più autentico possibile, che non cercano la via più facile ma che cercano la via che renderà i loro film migliori, dimostrando di conoscere, di sapere usare e di saper sperimentare con tutti i mezzi, effetti speciali inclusi, che il cinema offre.
Avviso che questo articolo NON contiene spoiler.
Tra i moltissimi esempi che potevo scegliere, ho optato per quelli che penso – con il dubbio di essermi perso qualche titolo ancora più meritevole – siano i tre film del 2015 che siano stati i più complessi e difficili da girare e realizzare, e che come detto ricalcano alla perfezione l’essenza del cinema. Tre esempi che, data la loro difficoltà, esprimono perfettamente quanto si possano spingere in là certe persone per amore dell’autenticità della settima arte. Per questo non vedete menzionate pellicole come The Hateful Eight di Quentin Tarantino, che comunque con le sue riprese in pellicola 70 mm negli splendidi paesaggi innevati del Colorado sarebbe da includere nel discorso, insieme a tantissimi altri titoli dell’anno scorso che hanno avuto dei comparti tecnici eccellenti.
Ho scelto tre film che hanno una storia semplice, nulla di altamente complesso o profondo, ma allo stesso modo nulla di banale. E questa semplicità è voluta: serve a valorizzare altri aspetti, a far concentrare lo spettatore su ciò che i registi hanno voluto fosse la punta di diamante del loro lavoro, a indirizzare la nostra attenzione sugli aspetti visivi, registici, immersivi, senza dimenticare l’aspetto adrenalinico e la recitazione.
Mad Max: Fury Road
Regia: George Miller
Fotografia: John Seale
Nazionalità: Australia / Stati Uniti
Uscita: maggio 2015
Quest’estate abbiamo assistito al ritorno di Cristo. La “mastermind” George Miller, alla veneranda età di 70 anni e dopo un curriculum che comprendeva film come Babe va in città e Happy Feet, si è risvegliato dal suo sonno e, nelle parole di Joe Dante, “ha dimostrato a quei giovani sbarbatelli impertinenti come si fa”, riprendendo in mano il personaggio che l’aveva reso famoso e girando uno dei migliori film d’azione della storia. Con una narrazione e dei dialoghi ridotti all’osso, Mad Max: Fury Road parla di Furiosa (una perfetta Charlize Theron) che in una terra post-apocalittica si ribella al tiranno Immortal Joe per salvare un gruppo di prigioniere, e nella fuga incontra il vagabondo Max (Tom Hardy). Ma non è la trama che conta. E per far capire le sue intenzioni, Miller ha pure pensato di inserire negli extra del Blu-Ray una versione del film priva di dialoghi, con solo la colonna sonora. Perché quello che conta è l’armonia sensoriale di immagini e suoni che il regista ha perfettamente orchestrato per riuscire a contestualizzare quanto basta le vicende, sostituendosi a una sceneggiatura praticamente inesistente. Escludendo le poche ma necessarie pause, Mad Max: Fury Road è essenzialmente formato da lunghi e adrenalinici inseguimenti, con un ritmo che parte spedito e si ferma con i titoli di coda. Oltre ad aver fatto uso di una regia, di delle inquadrature, di delle scenografie, di una fotografia e di delle coreografie sopraffine, Miller ha scelto di rompere la tradizione della Hollywood moderna che è argomento di questo articolo. Altri registi e altre case di produzione un film come questo l’avrebbero girato interamente in un set costruito apposta e avrebbero poi relegato tutto all’azienda di turno che avrebbe aggiunto tutto in post-produzione. Invece Miller ha scelto di intraprendere una folle avventura nei deserti africani, in cui tutta la pazzia delle scene del film è successa seriamente. I veicoli, le esplosioni, il fuoco, gli incidenti, il celebre chitarrista, i personaggi che si muovono tra le aste o che saltano da un carro all’altro, tutto reale. E chi ha visto il film può comprendere la colossale fatica della crew e del cast non solo per l’immensità e le proporzioni delle caratteristiche appena descritte, ma anche perché nelle scene non sono presenti continui tagli per facilitare le riprese, ma spesso ci sono delle larghe inquadrature durature. Un minimo lavoro di computer grafica è certamente presente, ma è usato con intelligenza: non sostituisce tutto il resto ma lo perfeziona, venendo usato principalmente per certi sfondi (la tempesta) o per costruire set (la cittadella) che non era possibile realizzare, oppure per aggiungere la tonalità arancione delle scene diurne e quella scura per quelle notturne (che in realtà sono girate di giorno). Miller ha utilizzato la forza visiva del cinema per creare un prodotto senza precedenti, che ha ridefinito il suo genere uscendo dai suoi canoni e che ha alzato l’asticella in un punto che difficilmente verrà raggiunto presto.
Victoria
Regia: Sebastian Schipper
Fotografia: Sturla Brandth Grøvlen
Nazionalità: Germania
Uscita: giugno 2015
Questo film dura 2 ore e 18 minuti. Narra la storia di una ragazza spagnola (Laia Costa) in soggiorno a Berlino che una notte incontra quattro ragazzi locali fuori da una discoteca i quali la invitano a unirsi a loro per un giro in città. La loro notte inizialmente tranquilla e innocente si trasforma in caotica e pericolosa. Le ambientazioni del film spaziano da locali vari, a supermercati, appartamenti, tetti di palazzi, automobili, ascensori, banche, parcheggi e hotel, e in questi luoghi succede di tutto, tra cui una rapina e una sparatoria. Qualcuno avrà già capito dove sto andando a parare: le 2 ore e 18 minuti sono tutte girate in un unico piano sequenza! Non mi riferisco a qualcosa di unito digitalmente per dare l’apparenza di un’inquadratura continua, intendo proprio zero tagli dall’inizio alla fine. Da quello che so, nella storia del cinema solo altri nove film hanno realizzato un’impresa del genere, ma nessuno ha raggiunto una durata di 138 minuti, e in nessuno era presente un percorso così lungo o degli avvenimenti così ardui da inserire in un piano sequenza. E soprattutto, in pochi (probabilmente solo il russo Arca Russa) sono riusciti a rendere lo stile di ripresa il loro maggior pregio ma non il loro unico. Anche senza contare la sua principale caratteristica, Victoria rimane un thriller di buon livello, con una storia solida e una recitazione eccellente. E questo rende il piano sequenza ancora più speciale e memorabile. Sono dell’idea che solo guardando il film e prestandoci attenzione ci si possa seriamente rendere conto del lavoro impossibile che il regista, il direttore della fotografia, gli attori principali e il cameraman hanno svolto. Il regista tedesco Sebastian Schipper per assicurarsi i finanziamenti ha promesso di girare il film normalmente nel caso in cui non fossero riusciti a girare la versione senza tagli, cosa che invece è riuscita dopo soli tre tentativi. La sceneggiatura era formata esclusivamente da dodici pagine e conteneva solo i dialoghi essenziali, con i restanti che sono stati improvvisati sapientemente dal cast. Anche le responsabilità del direttore della fotografia non sono per niente da sottovalutare: mantenere la conformità dell’immagine con dei continui cambi di location, dei passaggi dall’interno all’esterno e da luoghi illuminati ad altri più bui deve aver richiesto un lavoro che non posso vantarmi di comprendere. La difficoltà dell’impresa di queste persone aumenta ulteriormente se si considera anche che le riprese sembra che dovessero avvenire in una certa fascia oraria, con la luce del giorno che inizia a mostrarsi solo verso la fine della storia. Nonostante in patria e in molte altre parti dell’Europa Victoria abbia avuto molto successo, arrivando anche a guadagnarsi prestigiosi e meritati premi, purtroppo non sembra aver raggiunto il mercato italiano e quello americano, per cui approfitto per consigliarlo a quelli che non lo conoscevano. È sicuramente un esempio che rientra bene nell’obiettivo di questo articolo. L’amore per la settima arte (oltre alla ovvia e naturale voglia di distinguersi e puntare più facilmente al successo commerciale) ha permesso al regista di utilizzare con maestria una tecnica cinematografica che ha reso il suo racconto molto più immersivo e coinvolgente.
The Revenant
Regia: Alejandro González Iñárritu
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Nazionalità: Stati Uniti
Uscita: dicembre 2015
A un solo anno dall’uscita del celebre e acclamato Birdman, il regista messicano Alejandro González Iñárritu ha portato sul grande schermo The Revenant, un altro tassello nella sua filmografia che lo conferma come un autore visionario. La trama (basata su una storia vera) narra l’odissea di Hugh Glass (interpretato da un Leonardo DiCaprio allucinante, sui cui tornerò più avanti), esploratore che nel 1823 durante un’esplorazione nelle lande sperdute del North Dakota è stato attaccato quasi mortalmente da un orso grizzly, e dopo essere stato lasciato solo a causa di un suo compagno (un Tom Hardy in grandissima forma), va alla ricerca di vendetta. Al contrario del film precedente del regista, la sceneggiatura in questo caso non ha molto di speciale, c’è un tentativo di dare spessore alla vicenda che viene però secondo me oscurato da tutti gli altri aspetti della pellicola. Iñárritu ha nuovamente scelto come direttore della fotografia Emmanuel “Chivo” Lubezki, probabilmente il migliore del suo campo tra quelli in attività. Grazie al loro lavoro, The Revenant è formato da moltissime scene che, cinematograficamente parlando, raggiungono livelli di bellezza, di realismo e di complessità che non credevo possibili. Lunghi piani sequenza che necessitano di una precisissima coordinazione, inquadrature con protagonisti, attori e oggetti di scena che devono aver reso le riprese decisamente pericolose, e un minimo utilizzo degli effetti speciali impercettibile e usato esclusivamente per aggiungere realismo alle scene. Esattamente come per Birdman, Iñárritu non vuole rivelare al pubblico i suoi metodi, preferendo che ci sia un alone di mistero. Ad oggi è ancora difficile capire esattamente come siano riusciti a realizzare certe scene (come quella dell’attacco dell’orso, diventata famosa). Quello che è facile comprendere è l’incredibilità del lavoro degli attori, DiCaprio su tutti. Riuscire a gestire certe scene con così pochi tagli è una fatica incalcolabile, e qui ritorno a quella dell’attacco dell’orso, in cui si vede tutta la grandezza di questo attore. Ed è anche dalle sue interviste che riusciamo a capire le difficoltà che hanno avuto il cast e la crew durante le riprese. The Revenant è stato principalmente girato in alcune terre fredde e remote del Canada, la cui bellezza ha da subito affascinato Iñárritu, ma le cui condizioni climatiche hanno creato svariati problemi, con temperature che pare siano scese anche sotto i -30 gradi, bloccando l’attrezzatura. Inoltre, una delle maggiori caratteristiche del lavoro di Lubezki sono le riprese fatte esclusivamente sfruttando la luce naturale, e questo ha portato il film a poter essere girato esclusivamente durante 2/3 ore per giorno (meteo permettendo), dando pochissimo margine di errore agli attori. Tutto ciò ha portato a continui aumenti di budget e prolungamenti delle riprese, e all’allontanamento di diversi membri della crew a causa dell’elevata difficoltà di lavoro. Ma sono sicuro che tutte le persone coinvolte nella realizzazione di questa pellicola siano soddisfatte, perché il risultato ora c’è ed è magnifico. A breve il film uscirà nelle sale italiane, vi consiglio vivamente di non perdervelo. Io personalmente non vedo l’ora di godermelo anche sul grande schermo, dove deve per forza essere visto.
Come detto, questi sono solo i tre esempi che più mi hanno colpito tra i film usciti nell’anno da poco concluso. Tre pellicole che dimostrano come ci siano persone che non si sono adeguate allo standard della maggior parte dei blockbuster hollywoodiani, sfornando film che si riducono ad essere solo una sequenza di scene in green screen che non seguono una logica e che servono solo per apparire belle nei trailer e per attirare le masse. L’obiettivo del mio articolo dunque era quello di cercare di confutare il già menzionato pensiero di chi crede che il cinema odierno sia formato solo dal genere di film che fanno più notizia e che purtroppo ottengono più visibilità. Se l’espressione “vero cinema” che ho usato nel titolo era volutamente provocatoria, sono dell’idea che il tipo di film come questi tre siano da supportare, perché più autentici, perché realizzati con più competenza, e perché hanno un risultato finale decisamente migliore. Cosa ne pensate della questione? Avete apprezzato l’articolo? Non abbiate paura di farmelo sapere nei commenti.
Luigi Dalena
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