È vero che un aumento di popolarità equivale a un calo di qualità?
Siamo nel 2001, Charlie Brooker, sceneggiatore trentenne viene scelto da Chris Morris per far parte del team di scrittori della controversa serie comica Brass Eye. Sotto la guida di Morris, Brooker scrive l’episodio che poi diventerà il più celebre e più discusso della miniserie britannica. Da qui, l’autore stringe una partnership con il network inglese Channel 4 per sviluppare delle serie da lui create, che scriverà in parallelo a diversi programmi di news satirica di cui sarà il conduttore e che lo renderanno famoso in tutto il Regno Unito. Negli anni Brooker scrive Nathan Barley (ancora in collaborazione con Morris) e soprattutto la miniserie horror Dead Set, che lo porta ad essere globalmente riconosciuto come uno dei più promettenti sceneggiatori sul mercato inglese.
Dopo questo successo Brooker è già pronto per la sua nuova opera. Si lascia ispirare da successi del passato come The Twilight Zone e Tales of the Unexpected per creare una nuova serie antologica che chiama Black Mirror e che si concentra sulla dipendenza umana della tecnologia e sugli effetti negativi che questa può creare. Nel 2011 esce su Channel 4 la prima stagione formata da tre episodi intitoltati The National Anthem, Fifteen Million Merits e The Entire History of You. La serie diventa immediatamente un enorme successo della critica e ne vengono lodate la sua creatività e la sua audacia. Anche il pubblico reagisce molto bene e Channel 4, nonostante i costi di produzione siano parecchio alti, decide di commissionare una seconda stagione da tre episodi. Brooker lavora per un anno e mezzo alle prossime storie che chiama Be Right Back, White Bear e The Waldo Moment, trasmesse nel 2013 e prontamente seguite da altre acclamazioni da parte della critica a livello globale. Dopo questa stagione però i problemi di budget della produzione diventano più importanti anche a seguito di un cambio dirigenza di Channel 4, che però decide comunque di rinnovare la serie per una terza stagione di quattro episodi. Brooker presenta le bozze delle sue storie ma queste rimagono ferme in un processo di approvazioni da parte del network. Nel mentre l’autore britannico mette in pausa Black Mirror e si affida a un altro canale inglese per sviluppare la sua prossima serie, la geniale comedy A Touch of Cloth, con stagioni formate da soli due episodi ciascuna.
Nel 2014 Channel 4 torna in gioco su Black Mirror e informa Brooker che al momento ha budget solo per un episodio speciale. L’autore allora decide di fondere tre storie già pensate in percedenza e creare l’episodio White Christmas che va in onda a dicembre dello stesso anno e che riceve l’ennesima acclamazione da parte della critica. Dopo questo speciale però la produzione della serie finisce ancora più nel caos: Channel 4 sembra disposta a continuare con una terza stagione ma chiede a Brooker e alla sua producer Annabel Jones di trovare una co-produzione perché il canale da solo non sarebbe riuscito a sostenere il budget. Nel frattempo Netflix compra i diritti di trasmissione delle prime due stagioni fuori dal Regno Unito e come conseguenza la serie allarga il suo pubblico uscendo dallo status di opera di nicchia diventando invece più mainstream. A inizio 2015 i diritti di Black Mirror entrano in una gara d’appalto tra network televisivi nella quale Brooker e Jones sembrano preferire l’opzione di co-produzione tra Channel 4 e Netflix. Il canale inglese però tarda a rispondere e Netflix UK è intenzionato a procedere in solitaria, quindi riesce a vincere la gara offrendo 40 milioni di dollari e superando sia l’offerta di Channel 4 che di diversi network statunitensi, acquisendo così sia i diritti di produzione che quelli di distribuzione delle serie.
Con la produzione in mano, Netflix commissiona subito 12 nuovi episodi, divisi in due stagioni, andando così quasi a raddoppiare in un colpo solo il numero di episodi chiesti da Channel 4 in quattro anni. Secondo molti, questo è stato l’inizio del declino di quello che una volta era un capolavoro.
Nel corso delle prime due stagioni, Black Mirror ha avuto come punti di forza il suo fascino britannico e il suo coraggio di raccontare storie tanto vere quanto brutali, senza un forzato lieto fine ma con la voglia di raccontare la cruda realtà.
A esempio di questo si può portare quello che secondo il sottoscritto è il punto più alto della serie: l’episodio Fifteen Millions Merits (1×02) e il suo finale. Nel corso della storia Brooker crea un eroe che combatte per le stesse cause in cui crede lo spettatore, il quale è destinato a immedesimarsi e tifare per lui. Il tutto culmina in uno dei monologhi meglio scritti e meglio recitati nella storia della TV. Ma è dalla scena successiva, quella conclusiva, che Black Mirror diventa ciò che lo rende maestoso: il protagonista dimostra il suo edonismo a discapito della morale espressa in precedenza, mettendo in luce come il cinismo e l’egoismo siano intrinseci negli esseri umani e spesso molto più marcati di quello che si vuole far credere. L’amoralità prende il posto del buonismo e lo spettatore non può fare altro che rimanere agghiacciato davanti a una terrificante ma perfetta espressione di realtà.
E lo stesso viene fatto, in maniera più vasta, negli episodi The National Anthem (1×01) e White Bear (2×02), in cui Brooker mette in scena il completo disinteresse della collettività nei confronti delle brutalità, fisiche o psicologiche, che può subire un singolo individuo.
In episodi come The Entire History of You (1×03) o Be Right Back (2×01) invece vengono messe in risalto le emozioni personali utilizzando uno stile di narrazione e di regia tipicamente britannici, che permettono di scavare nel profondo umano con un’intimità che uno stile statunitense mainstream non può permettersi.
Tutto ciò viene perfettamente messo in scena usando come mezzo la tecnologia e il cattivo uso che l’uomo può farne. Però la tecnologia non è mai protagonista. Brooker ha cercato nei meandri della società moderna delle tecnologie che in un futuro più o meno prossimo potrebbero portare a un disfacimento delle relazioni umane, e le ha sempre usate come contorno, mettendo in risalto le relazioni stesse.
Anche in White Christmas, in cui la tecnologia è più presente, il vero scopo della storia è quello di mostrare senza mezzi termini le realtà più oscure della mente umana.
Il Black Mirror di Netflix, dalla terza stagione in poi, ha in gran parte perso tutto questo. Alcuni episodi come Shut Up and Dance, San Junipero, Men Against Fire o in maniera minore qualcuno della quarta stagione, riescono a mantenere la profondità di questa narrazione. Ma non tutti. In molte puntate Black Mirror non è più Black Mirror. E nel momento in cui metà delle storie di una stagione non sono ineccepibili, la serie stessa perde la sua perfezione. Fa parte del processo naturale di un’opera d’arte abbandonare la propria forza nel momento in cui viene saturata o stravolta la sua essenza, ed è esattamente quello che è successo quando Netflix ha deciso di internazionalizzare la serie e ordinarne troppi episodi alla volta. Brooker non è più riuscito a stare dietro alle sue sceneggiature e probabilmente non ha potuto dedicarci il tempo necessario, le idee sono finite presto e anche l’aggiunta di autori esterni non si è mostrata una scelta vincente.
Tutto questo viene constatato già da subito con Nosedive (3×01), il primissimo episodio della terza stagione, l’unico non sceneggiato da Brooker anche se basato su un suo soggetto. Ma i problemi iniziano proprio dalla base della storia: la dipendenza dai social network, dai ratings e dal giudizio degli altri è un soggetto di una banalità a cui Black Mirror non dovrebbe mai avvicinarsi, oltre che essere la copia dell’episodio App Development and Condiments di Community, uscito più di due anni prima. È un argomento che sarebbe stato rivoluzionario nel 2006, nel 2016 invece è solo sinonimo di voler accaparrare consensi con un tema e una preoccupazione sulla bocca di tutti da 10 anni.
L’episodio successivo, Playtest (3×02), è invece l’esempio perfetto di come Black Mirror sia a volte diventata la parodia di se stessa, con una trama che tratta la tecnologia semplicemente come il cattivo della storia, senza scavare in profondità nella caratterizzazione dei propri personaggi ma concentrandosi solo sull’aspetto horror/thriller per colpire gli spettatori. La stessa identica critica la si può fare anche a Metalhead (4×05) della stagione successiva. La tecnologia non è più un’elevazione della società moderna che serve a risaltare il lato brutale del pensiero umano, ma è invece trattata come ciò che distruggerà senza motivazioni gli eroi protagonisti. Per quanto la realizzazione tecnica di questi episodi rimanga eccellente, l’approccio alla storia è uno che starebbe meglio in film di fantascienza di serie B dei primi anni 2000.
Rimanendo nella quarta stagione, l’episodio che più subisce l’internazionalizzazione portata da Netflix e la saturazione del numero di sceneggiature è USS Callister (4×01), che ha come risultato l’essere un’accozzaglia di concetti mal scritti e inseriti a caso in una trama banale che pende verso il lato mainstream del pubblico. Quest’episodio è anche l’esempio di come lo spostamento a Netflix abbia virato Black Mirror verso un buonismo che non era minimamente necessario e che va contro le fondamenta stesse della serie. Dopo il successo di San Junipero, che aveva un accenno di lieto fine ben calibrato e ben integrato alla trama, sembrerebbe che Brooker o la produzione abbiano sempre di più voluto dei finali in cui gli eroi della storia trionfano solo perché sono i protagonisti buoni per cui tifa il pubblico. In USS Callister questo porta a un lieto fine completamente forzato che va nella direzione opposta al valore del Black Mirror di Channel 4.
L’episodio speciale Bandersnatch può servire invece per capire la differenza tra l’operato di Netflix e quello di Brooker nel declino della serie. L’autore cerca ancora di salvare la sua creatura realizzando una storia tutto sommato ben costruita, che rischiava di essere troppo dispersiva ma che in realtà è molto lineare e fa buon uso della struttura interattiva. Invece Netflix, nel promuovere l’episodio, tralascia il contenuto e si concentra solo sulla forma: vuole far parlare di sé, l’interattività diventa l’unico valore dell’episodio. Di conseguenza Black Mirror diventa ciò che agli albori voleva denunciare. Netflix fa passare l’interattività come se fosse la sua più grande innovazione, senza rendersi conto di non aver innovato nulla, utilizzando una forma di narrazione esplorata da decenni dai videogiochi, e dal cartaceo ancora prima. L’unica differenza è l’etichetta: Bandersnatch non è altro che un videogioco giocabile su Netflix invece che su una PlayStation. E quando entra nel panorama dello storytelling videoludico ci si rende conto che questo speciale non è all’altezza di ciò che l’ha preceduto, con una storia e un’interattività che viene sovrastata da esempi come The Stanley Parable e molti altri che hanno sfruttato un mezzo che permette più libertà.
Dopo Bandersnatch Netflix ha ordinato 3 nuovi episodi per la successiva stagione della serie. Una riduzione di quantità che però è arrivata troppo tardi. La quinta stagione è formata da storie completamente dimenticabili e assolutamente prive dell’essenza della serie che una volta aveva l’obiettivo di far riflettere il proprio spettatore. Ormai ci si accontenta di una buona confezione: di regia e recitazione di livello, come in Smithereens (5×02), senza ricordarsi della potenza e del significato della sceneggiatura. Ma purtroppo neanche questo accontentarsi regge, perché non tutte le puntate sono ben confezionate. Rachel, Jack and Ashley Too (5×03) è in assoluto il peggior episodio della serie. E il cattivo di turno che a fine episodio -spoiler- si piega su stessa implorando di non morire, scena degna di commediole da quattro soldi americane degli anni ’90 in cui i protagonisti sono bebè geniali, è la perfetta metafora del fondo del barile su cui si è depositata Black Mirror.
Forse scrivo con questo astio perché Black Mirror una volta era la mia serie preferita, probabilmente la migliore che avessi mai visto. Forse perché in questo campo un po’ ci lavoro, so quali possono essere i retroscena e immaginarli fa ancora più male. O semplicemente perché il potenziale sprecato di una serie TV mi dà meno fastidio solo del potenziale non interrotto al momento giusto.
La grandezza di un’opera si misura attraverso molti valori: dall’importanza storica e l’influenza che può esercitare sui posteri alla sua abilità di innovare, passando per la precisione e l’uso della tecnica del mezzo di cui fa parte, per la capacità di lasciare qualcosa a chi ne usufruisce e per l’originalità comparata all’era in cui viene realizzata. Nelle sue prime stagioni, Black Mirror eccelleva in tutto questo. La creatura di Charlie Brooker non era solo un grande prodotto artistico e narrativo, ma era un prodotto necessario. Il poter rappresentare la possibile decadenza della società futura attraverso gli occhi di quella odierna è una capacità fondamentale nel mondo della narrazione. È fondamentale perché la società stessa spesso usa certe opere per comprendere le proprie complicazioni e cambiare ed evolvere di conseguenza. Ma anche al di fuori della sua importanza all’interno della società, Black Mirror era vitale in quanto opera artistica in sé in un’era in cui il panorama cinematografico e televisivo è formato per la maggior parte da prodotti superficiali e piatti che oscurano i pochi prodotti validi esistenti. Black Mirror era una delle rare serie televisive che portavano lo spettatore a fermarsi, riflettere e analizzare fino allo sfinimento ciò che aveva appena visto, e non semplicemente andare avanti senza curarsi di nulla e far partire il prossimo episodio o la prossima serie saltando i titoli di coda. Rendeva umana la reazione di fronte a un’opera d’arte.
Il Black Mirror di Netflix abbandona la sua essenza e si perde nell’infinità del panorama superficiale e piatto già menzionato, che Netflix stessa ha in largo modo aiutato a creare e proliferare sposando un approccio che guarda solo alla quantità di produzioni senza badare alla qualità, saturando il mercato e creando un mondo di algoritmi che prevalgono sulla vena artistica della propria offerta. Il servizio di streaming ha così dato vita a migliaia di titoli mediocri che, seppure superiori all’offerta dei network broadcast statunitensi che prevaleva nello scorso decennio, sono assolutamente dimenticabili e privi di voglia di ambire ad essere qualcosa di più di un passatempo qualsiasi. Black Mirror ora fa parte di questa inutile e abusata categoria, e questa è la fine indegna di quella che era una delle migliori opere televisive dell’ultimo decennio.
Luigi Dalena
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