“Qual è il bersaglio, Capitano?”
“Tutto quello che è ancora in piedi.”
Sono presenti spoiler da tutta la seconda stagione dello show e dal libro L’Isola del Tesoro.
Colpisce dritta al cuore e allo stomaco, questa stagione di Black Sails, e lo fa con la rabbia e la veemenza di chi sa di avere ancora tutto da dimostrare. Il malloppo di episodi della scorsa annata catturava lo spettatore, lo attirava con i suoi ammiccamenti e le grandi promesse, ma forse proprio per questo aveva il sapore di un semplice prologo rispetto a quanto doveva ancora essere raccontato. Avevano promesso di allargare lo scenario, scavare più a fondo, moltiplicare l’azione. Ebbene, con gli occhi ancora pieni dello strabiliante season finale possiamo dire che quelle promesse siano state mantenute, e che il nostro bottino si sia fatto ancora più ricco.
Non molto tempo fa qualcuno disse: “Quando si parla di autori che non hanno idea di cosa faranno nella stagione successiva si può parlare di quelli di tante serie, ma non di questa”, assunto con il quale sono felice di trovarmi molto d’accordo. È possibile dividere la seconda stagione di Black Sails in due tronconi ben definiti, più un interludio centrale che funge da funzionalissima cerniera tra due parti apparentemente non coniugabili per ampiezza dell’azione e della narrazione stessa. La prima, che narra degli sforzi di Flint per riconquistare il favore della ciurma e tornare ad esserne capitano, l’intermezzo in cui al centro dell’attenzione c’è la lotta per il controllo del forte, prima, e di Abigail Ashe, poi, e infine la seconda il cui fulcro centrale è la spedizione a Charles Town per assicurare un futuro a Nassau e a tutti i suoi abitanti. Ciò che le accomuna è un’identica ricerca di profondità nel modo di dipingere questo crudo e stupendo affresco piratesco, ritratto di un mondo che non esiste più e che per noi, anestetizzati dalle carnevalate in salsa Hollywoodiana, risulta tanto alieno quanto ci sembra irresistibile. Se c’è una cosa che però non cambia rispetto all’anno scorso è la centralità della figura del Capitano Flint (Toby Stephens), mai come in questo momento alfa e omega della totalità della nostra storia.
La prima parte di stagione riprende esattamente da dove ci eravamo lasciati al termine di VIII (1×08), con un Flint detronizzato dai suoi stessi uomini, ferito e con la ciurma allo sbando, la Walrus naufragata proprio quando sembrava fossero ad un passo dal recuperare il tanto desiderato oro dell’Urca de Lima. Quello stesso saggio che ho già citato diceva che “a volte i marinai cadono in mare, mentre i capitani restano”: è quello che è successo alla ciurma di Flint ed è quello che accadrà, in seguito, anche a Charles Vane (Zack McGowan). A Flint non occorreranno che un paio di episodi ed un po’ di cara, vecchia manipolazione per avere la meglio sul troppo giovane e inesperto Dufresne e tornare saldamente al comando dell’impresa. Ciò che impreziosisce questa prima parte – e forse anche l’intera serie – sono i continui flashback che ci mostrano un James Mcgraw, ancora lontano dal tramutarsi nel più famigerato e temuto dei capitani pirata, calato nella realtà a lui estranea della politica londinese dell’epoca. Assistiamo finalmente al primo incontro tra Flint e Miranda Barlow (Louise Barnes) e facciamo conoscenza del di lei marito Thomas Hamilton (Rupert Penry-Jones), un personaggio che, partito quasi in sordina, si rivelerà essere importantissimo se non fondamentale per comprendere davvero ciò che si nasconde dietro al concetto di quella “nation of thieves” così a lungo inseguita dal nostro Capitano. Proprio la grande rivelazione del rapporto omoerotico sbocciato tra Mcgraw e Hamilton costituisce per me una perla di rara bellezza, niente affatto per lo scalpore ed il piacere scandalistico di una tale scoperta, ma perché essa ci permette di ribaltare completamente un personaggio che credevamo granitico ed irremovibile, quasi come uno scoglio contro le onde di un mare in tempesta. Grazie ad essa guadagniamo una preziosa finestra sul cuore di un uomo che fino a quel momento, ci accorgiamo soltanto ora, era stato in realtà un semplice simbolo. Da questo processo egli non ne risulta indebolito in alcun modo ma anzi, dobbiamo essere noi a ringraziare per aver avuto la possibilità di scorgere in lui, anche solo per un attimo, una profondità ed un’emotività che forse, a torto, credevamo impossibili. L’immagine che porterò sempre con me è quella di un James, solo e quindi spogliato di tutto ciò che il Capitano Flint è e deve essere, che con mano tremante accarezza la copertina del libro donatogli da Thomas, vero ed unico grande amore della sua vita.
A James, il mio amore più sincero. Non conoscere vergogna.
Se c’è una critica che devo muovere a questa stagione di Black Sails è quella di non aver saputo sfruttare a dovere un personaggio che da solo ha retto le sorti dell’intera Nassau per tutto il tempo in cui Flint e la sua ciurma sono stati assenti. Sto parlando di colui che occupa i primissimi minuti di IX (2×01), il capitano pirata Ned Low (Tadhg Murphy). Fin da subito, con quel suo aspetto inquietante, la malcelata follia e l’aperta brutalità con cui si approccia alla vita, Ned Low catalizza tutte le attenzioni su di sé in maniera inequivocabile. Se c’è una cosa che si può ben dire di Ned Low, è che è un personaggio con tonnellate di potenziale inesplorato che, purtroppo, non verrà mai espresso. Arriva con l’impressione di poter spaccare il mondo e gli bastano poche scene per mandare in crisi il fragile equilibrio su cui, in assenza del suo più grande alleato, il Capitano Flint, si regge lo scricchiolante trono di Eleanor Guthrie (Hannah New). Eppure viene sacrificato dopo appena una manciata di episodi in nome di una nuova nave per Charles Vane, l’altro grande pezzo da novanta rimasto sull’isola. Resta l’impressione che questo personaggio avesse ancora molto da dire, e che toglierlo di mezzo così presto possa non essere stata la decisione migliore, quasi come se agli autori occorresse qualcuno o qualcosa con cui tenere occupata Nassau in attesa del ritorno di Flint e dei suoi.
Charles Vane, dicevamo, l’uomo che forse più di tutti si è rivelato essere determinante nel corso di questa stagione. È lui ad aver tolto di mezzo Ned Low, sottraendo dalle sue grinfie la figlia di Lord Peter Ashe e salvando al contempo collo e reputazione di Eleanor; è lui a tenere banco per tutta la parte centrale della stagione nel conflitto con Flint per il controllo del forte e della ragazza, ed è di nuovo lui a correre in aiuto dello stesso Flint quando questi sta per essere condannato a seguito di un iniquo processo in atto a Charles Town. Davvero una bella rivincita per questo personaggio, che così tanto aveva patito nel corso della prima stagione. È la conferma che, in Black Sails, ciò che con una mano il mare toglie, con l’altra gli abissi restituiscono. E, a volte, anche con gli interessi.
Lo sa bene Jack Rackham (Toby Schmitz), il cui lamento di inizio stagione “Mi hanno pisciato addosso” si tramuta nel sibillino e trionfale “Vuoi vedere qualcosa che luccica?” che conclude degnamente questa seconda stagione. Due stive piene dell’oro del tanto agognato tesoro dell’Urca, finalmente. Nel mio piccolo oserei dire che nessuno meritava di mettere le mani su quell’oro quanto Jack che, ritrovatosi privato di tutto ciò che era per aver posto le ragioni del cuore al di sopra di quelle della ragione, lentamente e con costanza è capace di ricominciare da capo ed inventarsi da zero una nuova carriera, diventando così il Capitano Jack Rackham. Per inseguire questo sogno è disposto a sacrificare l’unica persona che per lui abbia mai contato davvero qualcosa, quell’Anne Bonny (Clara Paget) che passerà gran parte della stagione ad interrogarsi su chi sia veramente, quali siano le cose a cui è pronta a rinunciare e quali invece è tempo di lasciarsi alle spalle. Jack dice di aver sempre vissuto armato di niente se non del suo ingegno, ma io mi permetto di dire che forse non ha bisogno di niente altro per arrivare là dove leggende viventi come Flint e Vane lo stanno aspettando.
Ci sarebbe molto altro da dire e molte parole da scrivere, ma ho voluto conservare queste ultime righe per dedicare il giusto tributo a quello che si candida, insieme a James Flint, al titolo di mio personaggio preferito della serie. Sto parlando di John Silver (Luke Arnold), che molti di voi avranno già incontrato, qualche anno più tardi rispetto a dove ci troviamo ora, su una certa Isola quando ormai era conosciuto ai più come Long John. Lo aspettavo al varco, fin dal primo episodio della prima stagione, ed è esattamente questo il tipo di stagione che sognavo per lui. Da ladro di preziosi segreti, prima ricercato e poi mal sopportato, non un vero pirata, Silver sa farsi strada oltre ogni avversità per diventare prima il confidente e uomo di fiducia di Flint, e poi per accrescere la sua influenza e la sua considerazione all’interno della ciurma, fino a raggiungere risultati forse insperati. “Dio ci scampi dal giorno in cui John Silver capirà cosa potrebbe fare davvero con la parlantina che si ritrova”, dice più di un personaggio nel corso della stagione. Lo stesso Silver sembra incredulo di fronte all’impalpabile potere che sembra crescere in lui, episodio dopo episodio.
Dimmi se ho capito bene. Flint dà un ordine ma, per farlo eseguire, io devo scendere qui, mettere su un teatrino, e convincervi che è nel vostro interesse. Ma io ti lancio uno sguardo… e per questo sei disposto ad uccidere un uomo?
Stiamo assistendo, proprio in questo passaggio, alla prima presa di coscienza di quella che diventerà un’altra delle leggende partorite dalla penna di Robert Louis Stevenson. Ed è un finale coraggioso quello che completa la quadratura del cerchio, che vede la scelta di rendere in questo preciso momento Silver “l’uomo con una gamba sola” che popolerà le pagine de L’Isola del Tesoro. Subito dopo, John viene anche nominato quartiermastro da una ciurma che sembra pendere sempre di più dalle sue labbra, piuttosto che da quelle del capitano Flint. È proprio l’ultimo dialogo tra i due ad avermi fatto fremere sulla sedia, perché gli autori hanno saputo mantenere fede ad un postulato fondamentale racchiuso tra le righe dell’opera da cui la serie prende spunto. “Long John Silver è l’unico uomo di cui il Capitano Flint abbia mai avuto veramente paura.” Penso che si tratti di una cosa semplicemente meravigliosa, e proverò anche a spiegarvi il perché.
Quando Silver rivela il destino a cui è andato incontro il tesoro dell’Urca, è fin troppo chiaro dagli sguardi di Flint che non si sia bevuto quella storia neanche per un secondo, storia secondo la quale Silver sarebbe stato semplicemente – e con una tempistica davvero conveniente – informato dei fatti senza avervi preso parte alcuna. Dopo quello che hanno passato insieme Flint è arrivato a conoscere l’uomo molto bene, e nei suoi occhi si scorge già l’ombra di qualcosa: paura. Paura di fronte a qualcosa che non può comprendere. Mi spiego meglio: Charles Vane è un avversario terribile, indomabile, feroce, ma è qualcosa che Flint può capire perché, in fondo, possiamo dire che i due siano molto simili, se non uguali. Animati dalla stessa furia. Quel che guida Vane è l’orgoglio selvaggio dell’uomo libero che non vuole essere schiavo di niente e di nessuno; Flint non è così, perché il suo furore deriva dagli insondabili moti di un cuore che forse troppo ha amato, e quindi troppo ha perduto. Ciò nonostante, Charles Vane rimane comunque qualcosa con cui Flint è capace di relazionarsi poiché sono fatti della stessa pasta, uomini coscienti di quello che sono in un mondo di cui conoscono le regole.
Silver invece no. Flint sa fin troppo bene che non potrà mai arrivare a capirlo fino in fondo, ed è proprio a causa di questo, quel fondo di incertezza che sa non potrà mai scrollarsi davvero di dosso, che molto presto capirà che il suo unico vero avversario, in questo mondo e nell’altro, sarà solo John Silver.
Carlo Zagagnoni
Ultimi post di Carlo Zagagnoni (vedi tutti)
- Il Fondo del Barile: The Shannara Chronicles - 7 Marzo 2016
- Doctor Who: guida alla nona stagione - 17 Settembre 2015
- Comic-Con 2015: Doctor Who - 10 Luglio 2015