Eccoci alla prima recensione di questo nuovo corso del blog: si parte da The Last Dance, documentario coprodotto da ESPN e Netflix sulla leggenda NBA di Michael Jordan e dei suoi Chicago Bulls!
Con i primi due episodi distribuiti il 19 Aprile 2020, la serie racconta la stagione NBA ’97/98 (con vari flashback sulle stagioni precedenti) dei Chicago Bulls, l’ultima disputata da Michael Jordan con la squadra, attraverso immagini, in parte inedite, girate da una troupe NBA che ha avuto la possibilità di seguire tutta l’attività dei Bulls nell’arco dell’intero torneo. Ogni puntata conduce al finale della stagione dedicando approfondimenti su alcuni dei giocatori più significativi della franchigia come Scottie Pippen, Dennis Rodman e, ovviamente, lo stesso Jordan, ma anche su altre figure chiave della società come il general manager Jerry Krause e l’allenatore Phil Jackson, nonché sulle vicende interne che hanno fatto da palcoscenico e sfondo a quell’ultima stagione (spoiler) vincente nella storia del Bulls.
Proprio l’interesse della Lega a documentare quella stagione la dice lunga sulla particolare situazione all’interno della squadra e quanto tutto il percorso seguito da Michael e compagni negli anni precedenti al sesto titolo fosse degno di essere conservato per i posteri. Per chi è appassionato del gioco i Chicago Bulls e Michael Jordan sono figure iconiche che non hanno bisogno di introduzioni, per i meno esperti ecco una breve presentazione giusto per dare un senso generale alla vicenda.
La squadra, fondata nel 1966, naviga senza infamia e senza lode fino al 1984 quando, come terza chiamata del draft, venne scelto un giovane Michael Jordan. Quella scelta li avrebbe condotti, nei successivi 15 anni, a diventare la terza squadra della storia NBA per numero di campionati vinti, 6 (record attualmente condiviso coi Golden State Warriors), e in generale a diventare una squadra e un brand iconici della storia del basket e dello sport in generale.
Da parte sua, Michael Jeffrey Jordan nasce, quarto di cinque figli, a Brooklyn (New York) il 17 Febbraio del 1963 per trasferirsi poi con la famiglia a Wilmington nella Carolina del Nord. È semplicemente il giocatore di pallacanestro più forte della storia e uno dei personaggi mediatici più noti dagli anni ’90 in poi. Chi magari non conosce la figura di Jordan potrebbe chiedersi: “Ma questo che ha fatto?”. Domanda impertinente, ma legittima. Limitandoci al solo palmares sportivo, vanta 1 Oro ai Giochi Panamericani, 1 Oro ai Campionati americani, ma soprattutto 2 medaglie d’oro Olimpiche (Los Angeles ’84 e Barcellona ’92) e 6 titoli di Campione NBA coi Bulls e 1 titolo di Campione NCAA (il campionato nazionale dei College americani).
I 6 titoli di Jordan coincidono con quelli dei Chicago Bulls, cosa che già di per sé è un’impresa enorme in un campionato estremamente competitivo come quello statunitense. Viste in prospettiva, queste vittorie assumono un valore ancora maggiore perché le uniche squadre ad aver vinto di più nella storia NBA sono le corazzate dei Los Angeles Lakers e dei Boston Celtic, entrambe a 17 titoli nazionali. I Bulls nell’era Jordan sono riusciti, partendo da zero, a salire al terzo posto della classifica. Come se non bastasse, ci sono riusciti con una percentuale di vittorie in finale del 100%, avendo vinto sei finali sulle sei disputate, e diventando l’unica franchigia della storia a riuscire a completare per ben due volte il three-peat, la tripletta di vittorie consecutive del campionato (’91-’92-’93, ’96-’97-’98). L’unica squadra ad aver fatto meglio sono i Celtic, vincendo il titolo dal ’59 al ’66, anche se all’epoca il gioco e la concorrenza erano decisamente diverse.
Per descrivere ciò che Jordan è stato e ha rappresentato al di fuori del campo in quegli anni servirebbero ore di analisi. Per dare un’idea generale possiamo dire che Michael Jordan è stato il prototipo e il pioniere della super star planetaria, conosciuta e amata da tutti, con tutti gli annessi e i connessi che ciò comporta. Se oggi esistono figure sportive come Lionel Messi o Cristiano Ronaldo, Roger Federer o Rafael Nadal o, per restare in ambito cestistico, LeBron James, il merito va al prototipo di figura pubblica e di capacità attrattiva che Michael, il brand Jordan e la squadra dei Bulls hanno creato negli anni ’90.
Non voglio descrivere la docu-serie e nemmeno darne un giudizio, ma vorrei condividere le mie personali impressioni a riguardo. In particolare, sulla figura di Michael Jordan e sull’idea che mi sono costruito basandomi sulla serie e su altre occasioni in cui mi è capitato di sentir parlare di lui come persona oltre che come giocatore.
Il talento, l’enorme forza di volontà e la determinazione sono doti innegabili che però, quando analizzate in profondità come nella serie, possono dare l’impressione di una persona molto più dura di quanto si possa essere portati ad immaginare. E la serie coglie in pieno questo aspetto: ogni puntata e ogni argomento trattato viene condito con interviste, dell’epoca e attuali, ai protagonisti e allo stesso Jordan, con piena libertà di commentare dal proprio punto di vista il rapporto con compagni, coach, dirigenza, pubblico, stampa.
Ne emerge, a mio parere, una persona determinata ma anche molto dura e con una tale consapevolezza dei propri mezzi e del divario tecnico tra sé e gli altri da risultare arrogante. Ci sono stati momenti in cui, pur conoscendo l’evolversi degli eventi, mi sono quasi trovato a tifare contro il successo di Michael o della squadra proprio per questo aspetto.
Si parla del rapporto difficile di Jordan nei confronti del GM Krause, di alcune incomprensioni iniziali con l’allenatore Phil Jackson e di dissapori, litigi se non veri e propri scontri con alcuni compagni di squadra e avversari. Dalle dichiarazioni sia dei compagni di squadra e di nazionale che dello stesso Jordan emerge un concetto di competitività e di desiderio di vittoria che ho trovato un po’ esasperato, quasi come fosse una dipendenza. Non è difficile interpretare l’atteggiamento di Jordan come quello di un vero e proprio bullo e questa è una sensazione che non ti aspetti di poter provare nei confronti di una figura così idolatrata come la sua.
Emblematica è la vicenda del Dream Team spedito alle Olimpiadi di Barcellona ’92. Una squadra composta totalmente da leggende NBA della quale avrebbe dovuto far parte anche Isiah Thomas, altra icona del basket americano, che venne però escluso perché in cattivi rapporti con Jordan a causa di vicende sportive precedenti. Tale era l’influenza di Jordan nella squadra e nel mondo NBA che, all’ultimatum “se viene Isiah non vengo io”, la scelta fu quella di rinunciare a Thomas.
Questa e altre vicende all’interno della serie rendono chiaramente questo senso di arrogante superiorità da parte sua, ma è anche ciò che ha contribuito a rendere la figura di Michael Jordan ciò che è stata e che è tutt’ora.
Altro aspetto reso molto bene è l’impatto che la fama mondiale e il successo enorme hanno avuto sulla sua vita extra-sportiva, un impatto talmente travolgente e talmente globale da non essere mai stato riscontrato in egual misura da parte di nessun atleta prima di allora e che probabilmente nemmeno lui si aspettava o era in grado di sostenere. Solo la sua forte resilienza l’ha reso in grado di gestirne egregiamente il peso nonostante la scelta di ritirarsi dopo la prima tripletta di titoli, dovuta anche alla morte del padre, per poi ritornare a giocare e vincere (regalandoci il film Space Jam nel frattempo).
In tutti quegli anni la sua fama è cresciuta costantemente, creando di riflesso le fortune di molte altre persone e attività a lui collegate. Grazie a lui, l’NBA e il basket hanno avuto una forte spinta a livello globale, così come la Nike che ha consolidato la propria posizione di multinazionale mondiale. Il marchio “Air Jordan” è ancora oggi famoso in tutto il mondo non solo come linea di calzature sportive, diventando recentemente lo sponsor tecnico della squadra di calcio parigina del Paris Saint Germain. Un tale fenomeno mediatico non s’era mai visto prima di allora, non di quelle dimensioni. Ed è interessante come tutta quella fama, pur avendolo affaticato mentalmente e fisicamente, non l’abbia però mai fatto snaturare e non gli abbia mai fatto perdere la concentrazione sull’unica vera cosa che è sempre contata per lui: vincere e dimostrare di essere il migliore.
Ed è stata proprio questa sete irrefrenabile di vittoria la bussola che ha guidato Jordan per tutta la carriera e che ha contribuito a renderlo sia un personaggio leggendario agli occhi della gente e degli appassionati, ma anche probabilmente una personalità ingombrante e dura per chi si è ritrovato a relazionarsi con lui professionalmente, da compagno di squadra o da avversario. Proprio questo aspetto quasi morboso nell’essere iper-competitivo e di trovare extra-motivazione nella sfida verso chiunque lo guardasse anche solo storto è uno degli aspetti più affascinanti della serie e che più mi ha colto di sorpresa. Perché anche chi già ne conosceva le vicende da prima dello show forse non aveva ben chiaro fino a che punto arrivasse questa determinazione, e non può che rimanerne colpito.
Il fatto che abbia superato ogni sfida con il “semplice” uso del suo talento e della sua determinazione non fa altro che accrescere l’aura di grandiosità e spessore del personaggio, confermandosi ancora oggi una divinità nel mondo della pallacanestro e in generale un vero e proprio fenomeno di massa.
E voi, cosa ne pensate di Jordan, dei Bulls e del documentario? Venite a commentarlo con noi sul forum nel topic dedicato!
Zilion88
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