Hated in the Nation è l’episodio che termina questa stagione di Black Mirror e lo fa chiudendo un cerchio aperto con il primo episodio, Nosedive.
L’articolo contiene spoiler!
«Non pensavo di trovarmi improvvisamente a vivere nel futuro ma, cazzo, così pare».
In un episodio da un’ora e mezza, il più lungo di questa stagione, Charlie Brooker cambia registro e imposta la narrazione secondo un genere inedito per la serie, quello poliziesco, mettendo a fuoco temi a lui cari (lo spettro morale individuale plasmato dall’eccessivo uso di tecnologie, la manipolazione dell’utente, la sorveglianza governativa) e articolandoli attraverso un nucleo tematico centrale, quello della gogna mediatica. Siamo a Londra in un non precisato futuro in cui le api si sono estinte e sono state sostituite da mini-droni in grado di mantenere in vita l’intero ecosistema. L’ispettore capo della polizia britannica, Karin Parke (Kelly Macdonald), viene convocata per chiarire gli eventi iniziati il 15 maggio con l’omicidio della giornalista Jo Powers (Elizabeth Berrington). Karin, all’epoca dei fatti, aveva condotto le indagini insieme alla giovane detective Blue (Faye Marsay) appena trasferita dal dipartimento di informatica forense, grazie alla quale scoprono che a commissionare gli omicidi è una folla inferocita a colpi di hashtag.
Il grande pregio di Black Mirror è quello di mettere in evidenza come la tecnologia non sia altro che il mezzo attraverso cui è possibile scavare nel profondo nell’animo umano e come essa ne amplifichi soprattutto il lato oscuro. Quello di Black Mirror non è un mondo in cui l’uomo è schiavo dalle macchine ma è soggiogato al fascino che la tecnologia esercita su di noi e alla sua possibilità di poterci manipolare e ridefinirci come individui in maniera del tutto naturale e inconsapevole. Nella fattispecie, per essere catapultati nel mondo di Hated of the Nation basta davvero molto poco: accedere a uno dei tanti bar che popolano la rete, peggiori di quelli di Caracas (cit.). Twitter, Facebook, YouTube e tutte quelle piattaforme di aggregazione sociale virtuale con le quali abbiamo a che fare ogni giorno. Come in Nosedive, il mondo delineato da Hated in the Nation non è così lontano da quello che stiamo vivendo. Anzi, questo season finale riprende i temi del primo episodio della stagione e li amplifica, spingendoli verso il limite più estremo a cui si possa pensare: ottenere la morte fisica, oltre che sociale, attraverso un hashtag (#DeathTo) abbinato a una foto. È la fiera dell’odio che, come tutti i sentimenti, è di carattere universale e quello descritto in Hated in the Nation avviene attraverso un gioco al ribasso che rende questo sentimento qualcosa di gratuito, di facile fruizione e di facile utilizzo, senza doversi preoccupare di badare alle conseguenze che esso comporta e del fatto che su quella gogna potrebbe esserci chiunque. Trenta secondi, il tempo di postare un hashtag e una foto e la caccia alle streghe ha inizio, con orde di utenti armati di torce e forconi virtuali, pronti a reclamare la testa del mostro quotidiano a colpi di populismo becero e impazzito e senza considerare minimamente la possibilità di redenzione: «Improvvisamente ci sono milioni di persone invisibili tutte a dire quanto ti disprezzino». Odiare è un’abitudine talmente disinvolta che magari ci si dimentica a cosa effettivamente si radica questo sentimento e che dietro un account, ad esempio, esiste una persona. L’errore non è contemplato, così come l’empatia che viene svuotata dalla mediazione attraverso lo schermo e che ci consente di esercitare la libertà di ergerci a giudici morali di qualsiasi cosa senza considerarne le conseguenze. Perché, tanto, siamo noi a essere dal lato giusto della questione. Come in Nosedive, c’è questo impulso irrefrenabile per cui la nostra opinione conta solo per il semplice fatto che l’abbiamo partorita e la necessità di manifestarla nel modo più ampio possibile è così forte al punto da doverla assecondare: Brooker con questo episodio è bravissimo a mettere in evidenza questo aspetto usando espedienti narrativi come la torta recapitata, acquistata tramite crowdfunding, a casa della giornalista all’inizio della puntata.
Ma la “goliardia” della gogna social ben presto trova una sua realizzazione effettiva con le vittime del giorno che incontreranno tutte lo stesso destino: una morte atroce che si scoprirà essere autoinflitta, perché un’ape-drone ha sovrastimolato l’insula del cervello delle vittime. Uno sviluppo narrativo che rende l’episodio simile a un caso di X-Files perché, da un lato, l’ape-robot non sta lì solo per mantenere in vita l’intero ecosistema: «Il governo non ci spende miliardi solo perché lo dice qualche professorone […] Ci hanno visto un’opportunità in più e ne hanno approfittato. Sorveglianza completa su scala nazionale». Una manipolazione governativa che fa il paio con quella raccontata in Men Against Fire e che trova giustificazione nella necessità di garantire sicurezza, calpestando la privacy di ogni singolo individuo. Una manipolazione di intenti che si rispecchia in quella morale perché, dall’altro lato, le api non sono frutto dell’avvento della singolarità tecnologica, di un’intelligenza superiore a quella umana, ma del desiderio di vendetta di Garrett Scholes (Duncan Pow) che, dopo aver salvato la sua compagna di appartamento da un suicidio indotto dall’odio online, usa lo strumento delle api per catalizzare l’attenzione della folla inferocita, ottenerne i singoli profili e ucciderli: come le api attratte dal miele, le persone sono attratte dalla morbosità di esprimere un giudizio di merito sui temi scottanti del momento, svuotando tutto di contenuti e lasciando il nulla dietro di sé. Garrett Scholes decide di flettere i confini della moralità e si erge a giudice ultimo sentenziando la morte di tutti i twittatori di odio. Un’impasse nella quale cade anche il detective Nick Shelton (Joe Armstrong) che cede all’impulso di twittare il nome del vero colpevole: è davvero un modo per tendere una trappola oppure anche il suo è semplice e puro desiderio di vendetta? Ecco dove sta, secondo me, la grandezza di Black Mirror: la capacità di condensare la portata etica di un episodio in pochi secondi, attraverso una costruzione meticolosa che non ha paura di essere tacciata come prevedibile e scontata. Brooker in questo modo smorza un po’ la questione secondo cui la tecnologia è l’entità maligna da tenere a bada optando per una soluzione che ancora una volta mette sotto i riflettori chi è il vero villain: l’uomo, sempre più propenso a cedere ai peccati di vanità, superbia, ira; che ricerca vendetta e giustizia personali; che mette in discussione le basi della convivenza civile. Garrett Scholes in fondo non è niente di diverso dalla persona che, da dietro un pc, conduce il gioco al massacro di Shut Up and Dance: freddo, cinico, spietato. E d’altro canto Brooker è bravo anche a contestualizzare questo clima di odio grazie a un setting freddo, a scene che non rinunciano alla claustrofobia a cui Black Mirror ci ha abituati (vedi l’attacco delle api in bagno) e ad ambientazioni a tratti anonime che costituiscono il perfetto palcoscenico per mettere in scena la banalità del male.
E anche in questo caso l’epilogo di Hated in the Nation, così, non poteva altri che essere una carneficina, lasciando però lo scettro di plot twist in pieno stile Black Mirror a Shut Up and Dance. Del resto, sin dall’inizio, con il detective che si trova a testimoniare, sappiamo la natura dell’epilogo della storia, della non precisata tragedia a cui andiamo incontro. E da questa serie non ti aspetti altro che un finale tragico, è vero. C’è però un ultimo elemento che accomuna Nosedive e Hated in the Nation: la non totale assenza di possibilità di riscatto. Quello che penso sia il vero cambiamento della creatura di Brooker e che va letto tra le righe: se nel primo episodio è l’urlo liberatorio finale di Lacie, nell’ultimo episodio è il destino di Blue a riaccendere un barlume di speranza perché non ha ceduto al suicidio, come si poteva pensare, e persiste nella ricerca del vero assassino. Sia in Nosedive che in Hated in the Nation la previsione pessimistica della società non c’è, semplicemente perché non c’è alcuna predizione: è già qui e possiamo solo arginarne le conseguenze. E le dinamiche messe in evidenza in Nosedive e Hated in the Nation possiamo sperimentarle in ogni momento. Sembra che questa volta Charlie Brooker abbia voluto dirci che il futuro è un incubo perché il presente, in qualche modo, lo è già.
Considerazioni a margine:
- La scena in cui le api iniziano ad attaccare in massa mi ha ricordato Gli Uccelli di Alfred Hitchcock.
- L’azienda che produce le api-robot ricorda la Massive Dynamic di Fringe.
- La bellissima canzone che fa sfondo al massacro finale è “Fall Into Me” di Alev Lenz e dovrebbe essere rilasciata insieme alla colonna sonora della terza stagione, ma potete trovarla anche su Soundcloud.
- Per le tematiche, l’episodio trova anche dei punti in comune con l’episodio White Bear della seconda stagione.
- Blue che insegue Garrett Scholes, con l’appoggio dell’ispettore Karin Parke, ha fatto urlare allo spin-off. E mi unisco volentieri al coro.
- Oltre ai già citati Nosedive, Men Against Fire e Shut Up and Dance, questo episodio sembra condividere anche qualcosa con Playtest, dove il protagonista muore in maniera atroce a causa di una sovrastimolazione cerebrale. Non ho trovato una connessione con San Junipero, altrimenti Hated in the Nation sarebbe stato un ottimo trait d’union di tutti gli episodi. Ma magari c’è davvero, non è sfuggito a voi e volete scriverlo nei commenti qui sotto.
givaz
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