La prima stagione di American Crime Story, serie antologica del canale FX, si è conclusa con un tripudio di ascolti del pubblico (7.5 milioni di spettatori di media nella settimana) e applausi dalla critica (il 97% di recensioni positive su Rotten Tomatoes). Tutto meritato. E quel volpone di Ryan Murphy l’ha spuntata di nuovo.
[L’articolo contiene SPOILER sulla prima stagione The People v. O.J. Simpson]
È piena stagione di revival nel panorama seriale americano: annunci di reboot, remake e sequel proliferano come i funghi, dando vigore alla moda di riesumare resti di serie TV che se non è necrofilia televisiva poco ci manca. I network sono in crisi di idee? Probabile. Fatto sta che gli stessi all’improvviso, presi da un fremito di nostalgia canaglia, si trovano a riempire i palinsesti ripescando dal baule dei ricordi prodotti ammantati da un’aura di naftalina. E così, archiviato il ritorno di Mulder e Scully, attendiamo che il nuovo McGyver ci salvi grazie a una graffetta o che Xena e Olimpia rendano finalmente pubblica la loro relazione. Però tra un ritorno e un altro c’è chi in questo tsunami di prodotti vintage è riuscito a cavalcare la grande onda del revival in maniera originale, riportando in TV non un prodotto di finzione bensì uno dei processi del secolo, quello all’ex giocatore di football americano Orenthal James Simpson, coniugandolo secondo i canoni del true crime, del legal drama e della docu-fiction.
Riportarlo in TV, esatto. Perché il caso O.J. Simpson ha occupato i palinsesti televisivi americani per i 253 giorni del processo e anche qualcosa in più. Sin da quando quel 13 giugno del 1994 i corpi di Nicole Brown e del venticinquenne Ronald Lyle Goldman vennero ritrovati fuori dalla casa di lei nel quartiere di Brentwood, Los Angeles. Nicole Brown era l’ex moglie di quel running back che per primo aveva superato la soglia delle 2000 yard corse in una sola stagione: The Juice, come era stato soprannominato per via delle iniziali del suo nome che sono anche l’abbreviazione di orange juice. Ronald Goldman, invece, era un amico di Nicole a cui quella sera aveva riportato gli occhiali da sole dimenticati in un ristorante dall’ex moglie di O.J. Se i due avessero o meno una relazione non è certo, ma quello che la polizia di Los Angeles constatò è che le prove sembravano puntare tutte verso il campione di football. Ed è da quel momento, quando il primo capannello di giornalisti iniziò a formarsi davanti la villa del campione NFL, che la realtà iniziò a intrecciarsi alla fiction, creando un vortice mediatico in grado di rispedire sul fondo la ricerca effettiva della verità e portando a galla una serie di eventi collaterali, svegliando il mostro dell’infotainment.
Infotainment è un neologismo di matrice anglosassone che fonde due parole: information (informazione) ed entertainment (intrattenimento). Si tratta, dunque, di informazione-spettacolo e per averne un esempio diretto basta accendere la TV a qualsiasi ora del giorno per imbattersi in un rotocalco qualunque (sento, però, il dovere di avvertirvi che potrebbe avere effetti dannosi sulla vostra salute). Una spettacolarizzazione dell’informazione che sta sempre più puntando i riflettori verso la cronaca nera, riducendo il tasso di informatività a favore del semplice intrattenimento. Perché c’è sempre un dettaglio in più che può spingere più in là la narrazione, c’è sempre uno scandalo o un particolare cruento pronto a essere svelato. Quando entra in gioco l’infotainment, molto spesso gli aspetti veramente salienti della vicenda vengono messi gradualmente in secondo piano rispetto a dettagli meno rilevanti (molte volte più inerenti alla sfera del gossip) che, magari, garantiscono un livello di intrattenimento molto più alto e duraturo. Basta far focalizzare l’audience e il gioco è fatto. E se questo succede con i casi di cronaca nera che riguardano persone comuni, immaginate la risonanza di un caso in cui è implicato una star dell’NFL americana: praticamente la storia si scrive da sola. E così fu per il caso O.J. che dopo aver minacciato di farsi saltare il cervello nella stanza delle baby Kardashian decise bene di darsi alla fuga, dando vita a quell’inseguimento (rinominato The Bronco Chase) in grado di relegare nell’angolo della sovrimpressione la finale NBA del 1994.
«Un tempo si accendeva la TV alle 18 per le notizie, invece ora è così 24 ore su 24. Ho l’insonnia, mi sveglio alle 3 di notte, accendo la TV via cavo e boom, eccoli là» dice un entusiasta Robert Shapiro (John Travolta in versione botox) a un inizialmente riluttante F. Lee Bailey (Nathan Lane) per convincerlo a entrare in quel dream team che avrebbe combattuto in aula per far assolvere The Juice. «Perché – dice Shapiro – è un ottimo modo per tornare sotto i riflettori. O.J. è sicuramente l’americano più famoso a essere stato processato per omicidio. Camperai su questo per il resto della tua vita». E come dargli torto. Del resto c’è chi in quel processo non ha mai avuto un ruolo importante, ma ci ha fondato una intera carriera televisiva: bastava essere vicini alla famiglia Simpson, mostrare un po’ di presenzialismo hardcore nei rotocalchi televisivi e magari dire che O.J. salutava sempre. Faye Rensick (Connie Britton) è stata la prima che sulla vicenda ha scritto un libro, parteggiando per O.J. e descrivendo l’ormai ex amica Nicole come un’arrampicatrice sociale che ha sposato l’ex running back solo per i soldi; Kato Kaelin (Billy Magnussen) ha approfittato della notorietà del caso per rilanciare la sua “carriera” tra un reality e un altro; e infine Kris Jenner (Selma Blair), ex moglie di Robert Kardashian (David Schwimmer) che il suo impero dei reality se l’è creato da sola e inventandosi il reality Al passo con i Kardashian. Personaggi introdotti marginalmente nella serie, ma in maniera puntuale per sottolineare come, semmai ve lo foste chiesto, i Kardashian stanno dove sono grazie a questo fatto di cronaca. L’apprensione che i media hanno avuto verso il caso Simpson, infatti, è la dimostrazione di come essi possano masticare una storia per lungo tempo senza mai farle perdere sapore, un aspetto che The People v. O.J. Simpson non manca di mettere in evidenza sin dall’inizio, quando il picacismo mediatico viene da subito innescato da un omicidio nel ricco distretto di Los Angeles, subito preda dei giornalisti: «Brentwood? Nobody gets killed in Brentwood» (A Brentwood? Nessuno viene ucciso a Brentwood), dice una sorpresa Marcia Clark (Sarah Paulson) nel primo episodio della serie.
Che un fatto di cronaca nera venga usato per crearci attorno un canovaccio narrativo non è una novità. Già Fritz Lang negli anni ’30 si ispirò ai delitti di Fritz Haarmann e Peter Kürten per il film M – il mostro di Düsseldorf. Erano gli anni dell’espressionismo tedesco e il film, più che raccontare il delitto in sé, era il medium attraverso il quale veicolare metafore visive e un simbolismo molto forte che mettevano in discussione sia la relatività del concetto giustizia sia le sembianze che stava assumendo la società tedesca di quegli anni. Fritz Lang c’aveva visto lungo e aveva scorto quella fascinazione del male che porta l’uomo a concentrarsi sui dettagli più cruenti di certi fatti di cronaca. E quell’intuizione si è riproposta successivamente grazie ai libri di Vincent Bugliosi (che con Helter Skelter ha raccontato i delitti della Manson Family) e di Truman Capote (autore di A Sangue Freddo, in cui lo scrittore americano fa un resoconto del quadruplice omicidio della famiglia Clutter) ritenuti gli iniziatori del genere true crime. Ma l’aspetto interessante del caso Simpson è che in quella circostanza non c’era nessuno a scrivere la sceneggiatura del romanzo, se non strategie mediatiche e processuali che hanno finito per mettere da parte il vero motivo per cui O.J. era andato a processo: accertare o meno se avesse ucciso Nicole Brown e Ronald Goldman. Come si è concluso il processo lo sappiamo sì e no un po’ tutti. E forse questa è stata la scommessa più grande della prima stagione di American Crime Story: riproporre una storia già accaduta, entrata all’epoca a gamba tesa nell’immaginario pop americano, che adesso si impone nuovamente sul palinsesto televisivo pur rientrando nei margini di un’autonomia narrativa limitata, pena la mancata aderenza alla realtà. I creatori della serie, Scott Alexander e Larry Karaszewski (Man on the Moon), adattando il libro The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson di Jeffrey Tobin, sono partiti da quel duplice omicidio per raccontare una storia che ha in O.J. il fulcro ma non il solo protagonista: il suo personaggio (interpretato da Cuba Gooding jr) è il passepartout per portare il pubblico dietro le quinte di un processo che aveva i tratti della tragedia e che per tanti si è rivelato essere una farsa. E quella farsa si ripete di nuovo, vent’anni dopo, con l’aula di tribunale che ritorna a essere il palcoscenico dove i veri protagonisti della vicenda vengono interpretati da un cast di tutto rispetto, in grado di fornire delle ottime performance e senza intaccare quel realismo di fondo su cui si muove l’intero arco narrativo della vicenda. Il merito di The People v. O. J. Simpson, in sostanza, è stato quello di riproporre un fenomeno mediatico di quella portata in una chiave inedita, creando un romanzo per immagini lungo 10 episodi. E non si tratta solo di una messinscena fatta con i sosia dei veri protagonisti: la prima stagione di American Crime Story ci restituisce uno spaccato dell’America degli anni ’90, articolando bene la narrazione su due binari paralleli – il processo in aula e il processo mediatico – che hanno iniziato a fondersi in maniera così omogenea che a un certo punto tanto era difficile distinguerli nettamente.
This is a better daytime soap than anything we’ve got.
Questa è la miglior soap opera in circolazione.
Picacismo mediatico, l’ho definito poco fa. Prendendo in prestito un termine che riguarda un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall’ingestione continuata nel tempo di sostanze non nutritive. Allo stesso modo, il processo Simpson ha dato la possibilità ai telespettatori di nutrirsi di una serie di informazioni così poco utili, così poco inerenti all’accertamento della verità, al punto da creare schieramenti contrapposti nell’opinione pubblica e da alterare la percezione dell’intero caso tralasciando, ad esempio, i trascorsi violenti tra O.J. e Nicole. Ed ecco che, all’improvviso, è più rilevante il taglio di capelli di Marcia oppure il suo modo di vestirsi rispetto alle argomentazioni portate a carico dell’imputato; o ancora la foto di lei in nudo in topless durante una vacanza al mare. Perché nella storia c’è anche un lato intimo e personale, che riguarda quegli attori fuori da palcoscenico. E quel lato sembra essere il più succulento per l’audience di riferimento. That’s infotainment! Come sottolinea, nell’episodio 7, un professore di Cambridge durante una sulla lezione proprio sul processo Simpson: «Guardate dove stiamo andando a finire. I media, la gente: non solo vogliono una storia, ma vogliono anche che sia avvincente. E quello che dice il mondo arriva in quell’aula per osmosi. L’isolamento è inutile. Se deve trasformarsi in un circo per i media, fareste meglio a essere i direttori». E in quel caso, il direttore del circo risponde al nome di Johnnie Cochran (Courtney B. Vance) una personalità carismatica in grado di imbastire una conferenza stampa mentre gli lucidano le scarpe, al contrario del più navigato e televisivamente più costruito Bob Shapiro. Cochran è l’uomo che più di tutti ha capito l’importanza di dover raccontare al meglio una storia in tribunale perché, in fondo, a dover giudicare O.J. non sarà l’opinione pubblica che sventola cartelli davanti al tribunale, bensì una giuria debitamente selezionata. Eppure quell’opinione pubblica ha il potere di influire su come l’accusa gestirà il processo. Ed è proprio la giuria il punto di incontro tra le influenze interne ed esterne all’aula di tribunale. Se da un lato la campagna mediatica contro Marcia Clark mina la sua credibilità e autorità come pubblico ministero, dall’altro la strumentalizzazione della carta razziale da parte di Cochran risulta essere la strategia vincente. E nulla serve all’accusa coinvolgere nel dibattimento Christopher Darden (Sterling K. Brown), l’avvocato afroamericano usato come foglia di fico per nascondere i precedenti razzisti di uno dei detective che ha raccolto le prove e seguito le indagini, Mark Furhman (Steven Pasquale). C’è un sentimento di rabbia che ribolle nella comunità afroamericana di Los Angeles a causa delle aggressioni della polizia verso persone di colore e quel sentimento va sfruttato per sostenere i diritti civili degli afroamericani. Farne una causa per i diritti civili utilizzando l’elemento razziale per distogliere l’interesse verso l’omicidio in sé e farlo diventare una crociata personale. Lo stesso magazine TIME mise O.J. in copertina scurendone il volto per farlo risultare più nero. E poco importava se The Juice con quella comunità avesse ormai poco a che fare, dal momento che le uniche persone di colore che frequentava era la sua famiglia e qualche amico stretto.
Il modo in cui Cochran e Darden si rapportano alla N-word (nigger/negro) e al suo utilizzo è esemplare per capire il modo in cui venne strumentalizzata la questione razziale. Perché è proprio nel momento in cui “la parola che inizia per N” viene pronunciata in aula, verso una giuria composta in gran parte da afroamericani, che Cochran riesce a far sì che The Juice diventi lo spartiacque tra bianchi e neri, lui che probabilmente di quella comunità afroamericana faceva parte solo a metà dal momento che conduceva una vita “da bianco” e poteva permettersi un team di avvocati stellari perché in grado di pagarli. O.J. ormai non era più il teppistello di Potrero Hill: «This isn’t some civil rights milestone. You haven’t changed anything for black people here — unless you’re a famous rich one in Brentwood» (Questo non è un traguardo nella lotta per i diritti civili. Non hai cambiato un bel niente per i neri di questo Paese. Certo, a meno che tu non sia ricco e famoso e viva a Brentwood) per dirla con le parole di un frustrato Christopher Darden sottolineando che l’assoluzione di O.J. non avrebbe cambiato per niente lo status sociale degli afroamericani. E a poco servono le arringhe dell’accusa per riportare la giuria (oggetto peraltro di un episodio dedicato) a focalizzarsi sull’oggetto di quel processo, il duplice omicidio. Perché ormai è Johnnie Cochran che detta il ritmo del processo, colui che è riuscito a puntare i riflettori su se stesso («You made the world your stage» – tu hai reso il mondo il tuo palcoscenico – gli dice la moglie), sull’aspetto razziale e su quel guanto che visto che non calzava, allora bisognava assolvere l’imputato: «If the evidence doesn’t fit, you must acquit» (Se il guanto gli va piccolo, l’assoluzione è un vincolo). E allora l’accusa vede scivolarsi definitivamente una condanna dalle mani, pagando un’eccessiva superficialità e non sapendo uscire dal quel tritacarne mediatico. La giuria raggiunse il verdetto in sole 4 ore: «They‘ve discussed this case less than anybody in America» (Hanno parlato meno loro di questo caso, che il resto degli americani), dice un ansioso Robert Shapiro. The Juice venne assolto e nonostante Cochran riuscì a non deludere il proprio pubblico, O.J. alla fine dei conti ci viene descritto come quello che l’ha fatta franca, non come quello innocente oltre ogni ragionevole dubbio. E spetta all’arco narrativo di Robert Kardashian (un David Schwimmer in grande spolvero) riassumere perfettamente il passaggio di O.J. dall’idolo alla star della cronaca nera. Un Kardashian che passa dall’adorazione per O.J. alla consapevolezza che l’amico è riuscito a scampare alla condanna, lasciandolo da solo con la sua statua in giardino mentre nella villa impazza una festa a cui partecipano estranei in cerca dei propri 15 minuti di celebrità.
The People v. O.J. Simpson è una ricostruzione meticolosa che si avvale di qualche licenza poetica senza, però, snaturare l’aderenza alla realtà (se volete fare un fact checking della vicenda, Kenny Herzon di Vulture lo ha curato episodio per episodio). Sono bastate dieci puntate per essere catapultati indietro nel tempo, nel bel mezzo degli anni ’90, quando acconciature cotonate e spalline non erano ancora state dichiarate fuorilegge e facendoci respirare un clima da circo mediatico che allora era eccezione e adesso è diventato regola. È una storia che è stata già raccontata dopo 20 anni e che quindi non ha nessun margine di modifica, al contrario di altri prodotti seriali true crime come The Jinx o Making a Murderer che hanno avuto delle conseguenze nel riaprire vecchi cold case (i casi Avery e Durst sono ancora sotto osservazione). Con American Crime Story, Ryan Murphy e Brad Falchuck entrano nel genere true crime restituendoci un racconto chiuso e una narrazione che ha un inizio e una fine, correndo audacemente il rischio di raccontare una vicenda giuridica e mediatica di cui si conosce l’esito processuale e che non può essere oggetto di revisione di alcun tipo (durante il periodo della messa in onda venne ritrovato un coltello nell’ex proprietà di Simpson, ma venne accertato che l’arma non era riconducibile al duplice omicidio di Nicole Brown e Ronald Goldman). Una restrizione, se così vogliamo chiamarla, che trova sfogo sul versante tecnico, con una regia che riesce a dare una forte dinamicità al racconto. Infatti, un altro grande pregio di The People v. O. J. Simpson è quello di instillare tensione nonostante tu sappia o meno l’esito del processo, grazie a una regia lenta nei momenti più intimi e frenetica nelle situazioni più concitate. L’uso degli zoom in modo da accelerare l’azione e i movimenti di camera che planano sull’aula del tribunale concorrono all’effetto di una narrazione avvincente alla quale si alternano momenti di forte emotività con il cast in grado di fornire performance elevatissime (con Sarah Paulson e Courtney B. Vance una spanna sopra tutti gli altri).
FX ha fatto di nuovo centro rinvigorendo quel filone true crime che sta contaminando anche altre serie TV (nell’episodio Hello Kitty della quinta stagione di Girls, è costruito sull’omicidio di Kitty Genovese avvenuto nel 1964). The People v. O. J. Simpson si guadagna, meritatamente, un posto nella colonna della migliori serie TV dell’anno, con gli episodi 5, The Race Card, e 6, Marcia Marcia Marcia, tra le cose migliori di questa prima parte del 2016. Tutto questo mentre il caso Brown-Goldman è formalmente ancora aperto, dato che per quel duplice omicidio non è mai accertato chi fosse l’assassino. O forse sì.
Ma si sa, lo spettacolo deve continuare.
givaz
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