L’attesa alla fine è stata ripagata: Black Mirror è tornato e si è presentato a bordo della U.S.S. Callister, con un episodio non proprio consono ai cosiddetti canoni della serie, ma altrettanto valido.
L’articolo contiene spoiler!
Insomma, pare che questo primo episodio della quarta serie di Black Mirror abbia trovato delle posizioni constrastanti tra i seguaci della creatura di Charlie Brooker. Ci si aspettava un episodio dalle tinte più cupe e invece la scenografia anni ’70 in stile Star Trek, con colori vividi e accesi, ha bucato lo schermo sin dalle prime inquadrature. Ci si aspettava una riflessione etica sulla tecnologia e sul suo uso spinto e invece abbiamo avuto un lieto fine (siamo sicuri?) e mannaggia a San Junipero e Netflix che hanno un po’ snaturato la serie. Dove si collochi questo episodio all’interno della scala delle 50 shades of Black Mirror, non saprei dirlo. Sicuramente sotto White Christmas e certamente sopra Nosedive. Due episodi con i quali U.S.S. Callister condivide due temi: quello dell’accettazione sociale e l’idea dei cloni intrappolati in una realtà virtuale.
Robert Daly (Jesse Plemons, Fargo – Breaking Bad) è un programmatore, nonchè co-fondatore di un’azienda informatica che ha sviluppato una pittaforma di gioco online chiamato Infinity all’interno del quale i diversi utenti sono in grado di immergersi ed esperire la realtà virtuale come reale. Daly, al contrario del suo socio James Walton (Jimmi Simpson, House of Cards – Westworld), è una persona estremamente introversa incapace di far valere la sua posizione nell’azienda neanche nei confronti dei suoi dipendenti. Un personaggio con il quale è facile empatizzare fin quando non scopri il suo lato oscuro: infatti, quotidianamente decide di sfogare le sue frustrazioni lavorative all’interno di una versione personale offline di Infinity. Il problema è che all’interno della sua personale realtà virtuale, Daly non è altro che il capitano apparentemente carismatico ma sostanzialmente tirannico che vessa i suoi sottoposti: cloni dei suoi colleghi creati grazie ad un loro campione di DNA. Cloni che tuttavia non sono delle semplici risproduzioni virtuali ma hanno una propria coscienza e intelligenza, sono in grado di ribellarsi ma sottostanno a Daly solo perchè è l’unico in grado di giocare con il loro destino.
Carne al fuoco ce n’è tanta, in un episodio che dopo un’ora e quindici minuti sembra essere più stratificato del previsto. Black Mirror ci aveva abituati alla divisione in compartimenti stagni dello spettro di valori etici che voleva mettere in scena in modo da esasperare le scelte dei personaggi, estremizzando le situazioni e arrivando a quel climax che “genera ansia e angoscia” (cit. da Internet). In U.S.S. Callister questo avviene in maniera un po’ più edulcorata a vantaggio di un cambio di prospettiva che capovolge interamente il punto di vista, virando verso un episodio che mira più all’intrattenimento piuttosto che ad “educare”. Il personaggio di Jesse Plemons è affermato nella realtà lavorativa ma non per questo non riesce a svestire i panni del nerd sfigato e poco rispettato dai colleghi. Allo stesso tempo è bello e carismatico sulla U.S.S. Callister e non perchè lo sia effettivamente ma perchè è un bulletto di periferia in grado di farsi rispettare solo per l’uso incondizionato della forza, dando sfogo a frustrazione e senso di onnipotenza. Daly è il dottor Jekyll/Mr. Hyde dell’episodio, con il quale prima simpatizzi ma poi scopri che ha fatto un clone di tuo figlio e lo ha lanciato nello spazio solo per il gusto di poterlo fare e infliggere una punizione esemplare. Un mostro.
La vera iperbole di Black Mirror non sta tanto nel fatto di ipotizzare soluzioni tecnologiche ultra-futristiche, né nel fatto di essere un oracolo che fa previsione. La teconologia non è nulla di più di un mezzo attraverso il quale riflettere sulla natura dell’uomo in quanto portatore di un sistema etico di valori. Ed è qui che va rintracciata una delle due chiavi di lettura principali di U.S.S. Callister: quanto è giusto/sbagliato il comportamento di Daly? Avendo la possibilità di creare dei feticci sui quali poter sfogare le tue frustrazioni sociali, lavorative, familiari, lo faresti? Creeresti una U.S.S. Callister tutta tua? Perchè Daly è cattivo? D’altronde se odi solo nel virtuale sei un odiatore migliore degli altri e Daly è anche uno di quelli che “salutava sempre”, che rifugge continuamente la realtà per poter curare quotidianamente il suo ego di maschio aplha. D’altronde quelli sulla nave non sono reali, sono cloni! Cosa c’è di giusto o sbagliato in quello che fa Dely?
Il delirio di onnipotenza del programmatore di Infinity è essenzialemente il fulcro dell’episodio che se da un lato ci porta alla domanda di quale sia la natura reale di Daly, la sua vera essenza, dall’altro porta alla questione di quale sia la versione migliore degli altri personaggi della nave spaziale. Quella reale o quella clonata? È qui che troviamo la seconda chiave di lettura dell’episodio: paradossalmente l’equipaggio della U.S.S. Callister si riscopre molto più autentico e libero dei corrispettivi reali perché in grado di liberarsi dai dettami sociali ai quali sono assuefatti e imbrigliati. Allo stesso modo, lo sono sulla nave spaziale fino a quando non arriva Nanette Cole (Cristin Milioti) a ideare l’ammutinamento dell’equipaggio: “Daly non è Dio, è un programmatore”. Un piano di fuga rocambolesco che aumenta il grado di intrattenimento nei confronti dell’episodio e la mano di William Bridges, che aveva co-sceneggitao con Charlie Brooker anche Shut up and dance, un po’ si fa sentire: se Daly scopre Nanette sul balcone che fa? Se Daly non esce dal gioco che succede? È questo è un po’ lo schema narrativo che ci porta verso la fine dell’episodio: Daly vittima della sue stesse creature e i cloni che vagano nell’universo virtuale di Internet, liberi da qualsiasi tirannia ma alla mercé di giocatori online. E personalmente non so se è proprio un finale positivo al 100%.
Sì, probabilmente U.S.S. Callister non è il vero autentico Black Mirror a cui ci aveva abituato Charlie Brooker nelle prime due stagioni. Le considerazioni sull’episodio possono portare alla conclusioni più disparate: la satira sui fanboy, il maschilismo spinto di Daly, i riferimenti ai Social Justice Warrior. Tuttavia Charlie Brooker opta per una chiave di lettura che non asseconda le aspettative dello spettatore, sperimentando un tipo di linguaggio nuovo e un’estetica abbastanza lontana dai canoni degli episodi classici già accennata solo in Nosedive, non solo con le scenografie ma anche con i richiami horror introdotti in scena mischiandoli a quelli della commedia. Probabilmente Charlie Brooker sa già che stiamo vivendo periodi bui, quindi meglio abbassare i toni.
givaz
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