C’erano una volta un elfo, un nano, qualche uomo e degli hobbit. C’era una volta una storia capace da sola di creare un genere, di toccare il cuore di molte generazioni di giovani in cerca di un sogno. C’era una volta un film, nuovo volto del cinema per il terzo millennio.
Poi, come sempre, venne il denaro.
Da ieri (18 dicembre) nelle sale italiane, prima ancora che in quelle americane, viene proiettato il terzo ed ultimo capitolo della trilogia de Lo Hobbit. Esperimento controverso di un Peter Jackson alla ricerca di quel brivido che nel decennio passato era riuscito a regalare più o meno a tutti con la trilogia madre per cui verrà ricordato. Io l’ho visto per voi alla prima occasione e devo dire che il mio giudizio non è cambiato da quello che scrissi l’anno passato. Anzi, si è aggravato.
Riassumendo, la recente trilogia ha tutti i tratti di un vile esperimento commerciale: spettacolarità estrema a fronte di una storia di poca sostanza. E devo aggiungere che in quest’ultimo capitolo il divario è aumentato considerevolmente. Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate è caratterizzato da una debolezza narrativa sconvolgente, che a tratti sfocia nel ridicolo. Pare una parodia di se stesso. D’altronde se le cose avevano funzionato comprimendo sei libri in tre film, come si è potuto pretendere di dilatarne uno in tre?
Tutto è già stato detto al riguardo e questo pare solo l’ennesimo pretesto per gettare benzina sul fuoco. Ma non è così. Perché qualche ora fa mi sono diretto al cinema con aspettative talmente basse che non riserverei nemmeno a Fast and Furious e, ciononostante, la delusione è arrivata. Persino sul fronte visivo ho molto da ridire. Le immagini 3D sono ovviamente fantastiche, da togliere il fiato, ma anche qui si intromette troppo spesso l’assurdità di certi passaggi che sfiorano il ridicolo. Non l’avrei mai detto per gli altri due capitoli, ma qui sfociamo in quel trash che attira in quanto tale. Nulla può nemmeno la premessa di vedere in gioco quei cinque eserciti, la speranza di rivivere le emozioni provate tempo fa nei campi del Pelennor.
E, ironia della sorte, in un (troppo) lungometraggio che pare una parodia, il comic relief è la parte più triste. Affidato al personaggio di Alfrid, il tirapiedi del governatore di Esgaroth, è un miscuglio di comicità da tre marmittoni e Willie il coyote. Non escluderei che, se verrà rilasciato il cofanetto con la versione estesa, lo vedremo impegnato in una scena in cui scivola su una banana scappando da un orco.
L’ultimo punto su cui vorrei soffermarmi è l’esito dell’audace scelta di inserire personaggi estranei al romanzo (Legolas e Tauriel) per costruire quel triangolo amoroso elfo-nano-elfo che pareva essere indispensabile l’anno scorso. Sarà valsa la pena di alienare i fan più Tolkeniani per mettere in atto una sottotrama amorosa estremamente banale che ha il solo scopo di mettere in bocca qualche dialogo ai protagonisti elfi? A giudicare dalla conclusione, direi di no.
Nonostante il mio sparare a zero su questo capitolo, non sono certo qua a sconsigliarvi di vederlo. Se siete arrivati fin qua, sarebbe assurdo non farlo. Vi consiglio però, se non avete già raggiunto il livello zero, di abbassare ancora di qualche tacca la vostra rotellina delle aspettative. Forse in questo modo potrete godervelo per l’abbagliante spettacolo di location, luci e colori che in fondo è.
Per me la nota positiva, dopo questi tre anni, è arrivata con la conferma al fatto che non si può toccare il cuore dello spettatore se si ragiona esclusivamente guardando al mercato. Non si può sperare di ottenere un capolavoro dai ritagli di un altro. Hanno provato ad insegnarci la lezione di Thorin che, accecato dall’oro, perde di vista le cose che contano, e sono stati i primi a cascarci.
Fuggite, sciocchi!
Matteo Pilon
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