Con questo articolo diamo il via alla partnership con il sito di critica e approfondimento cinematografico Sentieri Selvaggi. Il nostro amico Luigi Coluccio ci espone il dilemma degli attori divisi tra cinema e televisione.
Lo stato delle cose: l’attacco di ogni articolo pubblicato da Flavorwire e Grantland e The Atlantic sull’attuale panorama televisivo americano è tutto sull’assottigliamento della “linea di fede” che da sempre separa le movie stars dalle tv stars. Lo stato delle cose: quante tv stars sono presenti nel selfie da 3.400.000 retweets scattato da Bradley Cooper la notte degli 86esimi Oscar? Forse potevano essercene, come ha twittato l’host del profilo e della cerimonia Ellen DeGeneres: “If only Bradley’s arms was longer”. E invece niente, o meglio, nessuno. Sì, Jennifer Lawrence ha passato la gioventù nel Bill Engwall Show; certo, Meryl Streep ha guidato una selva di attori nella lontana pietra miliare di critiche e rating Angels in America; definitivamente, Kevin Spacey è l’ultima icona da grande romanzo americano, quel Frank “Francis” Underwood di House of Cards che sicuramente sarà al centro di qualche campagna virale per le presidenziali del 2016. Ma nessuno di loro è una tv stars per anzianità, origine, affiliazione retroattiva. Damn it, nel selfie scala-classifiche c’è persino Peter Nyong’o, il fratello dell’esordiente (!) di Lupita, un imbucato! Lo stato delle cose abbatte lo stato delle cose: nonostante le rette parallele di cinema e TV non siano mai state così vicine a toccarsi, la libbra di carne delle star degli studios è sempre e comunque più saporita e profumata della libbra di carne delle star dei network. Eppure i due bracci della bilancia si sono avvicinati di una tacca, con le centinaia di pilot che ogni anno vivono e muoiono nel giro di uno screen test sempre più popolati da attori hollywoodiani, e i network che alzano il tetto degli ingaggi per i nomi più “cinematografici”. Il grafico è comunque molto più complesso e solcato da direttrici spesso in contrasto tra loro, perché, se è vero che negli ultimi e prossimi mesi il piccolo schermo è diventato e sarà (ancora) un po’ più grande con nomi quali Halle Berry, Clive Owen e Bill Murray, è anche vero che “only at the Golden Globes do the beautiful people of film rub shoulders with the rat-faced people of television”. Citazione dal monologo di Amy Poehler, conduttrice dei Golden Globes di quest’anno…
Tutte le strade passano accanto a un red carpet
Shrinking. Contrazione. Quando gli americani usano questo aggettivo, allora le cose stanno andando male. E diciamo che almeno dal 2008 in poi le cose stanno andando davvero male, tanto che perfino le star hollywoodiane sono costrette a correre verso beni rifugio per non vedere assottigliati i propri conti in banca a sei, sette zeri. Forbes ha scritto articoli e fatto interviste su questo, segnalando la vera faglia di crisi del cinema americano contemporaneo: ancora e ancora, i soldi. Dalla blockbusterizzazione e brandizzazione ai flop che si sono fatti sentire di diversi tentpole movies, passando per contratti sempre più polarizzati verso l’eccesso o il ribasso e mal gestiti, la Hollywood degli studios è divenuta ancora più schizofrenica nella gestione economica e finanziaria dei propri asset e investimenti, provocando un, toh, shrinking del mercato attoriale. Perché è qui che si deve guardare, e non alle falangi di registi/sceneggiatori/produttori da tempo immersi nel mondo della TV, se si vuole davvero sentire la temperatura degli eventi: se avere nei propri credits Steven Spielberg, Michael Mann e David Fincher non fa altro che confermare il sostrato, il piano orizzontale che regge lo sviluppo verticale televisivo degli ultimi quindici anni (quindi da tempi ancora non troppo sospetti di shrinking economico) e lo schierare negli opening title Charlie Sheen e Elijah Wood segna un nuovo livello dello scontro, adesso basato sulla pura concentrazione di numeri, contatti, visibilità.
Già nel passato remoto e prossimo, le porte televisive si erano aperte per i protagonisti hollywoodiani, come l’ondata di vecchie glorie di jimmystewartiana e robertmitchumiana memoria che erano state costrette a trovare rifugio in altri lidi di immagini, scacciati dai rats etnici e brutti della New Hollywood jacknicholsiana e alpaciniana. Ma si trattava di profughi, reietti, cariatidi dimenticate che le porte girevoli della TV accoglievano o ri-accoglievano, donandoli in pasto ad un pubblico essenzialmente – e di nuovo – conservatore. Il percorso era unilaterale, privato di ogni feedback, con un movimento vettoriale che funzionava come nel vuoto, andando sempre verso un’unica direzione, cioè dalla televisione al cinema. E in questi casi il timing decisionale per il salto era tutto, era un’intera carriera, che volava via per un “troppo presto” o un “troppo tardi”. La tradizionale tripartizione lavorativa e di talento dell’attore britannico, diviso equamente tra teatro, televisione e cinema, negli USA non ha mai definitivamente attecchito e il profilo di chi adotta tale suddivisione è essenzialmente quello di un caratterista hollywoodiano, primadonna al Sundance e aggregatore di spettacoli a New York e Chicago. Tutti questi indizi hanno rappresentato per decenni la spina dorsale delle regole del gioco spettacolare americano, regole che adesso sono quasi completamente saltate grazie a star che nel loro prime virano verso la TV, a star che, pur pieni di potere decisionale, lo direzionano verso la TV, a star che puntano un altro tassello della loro immagine verso la TV. Ecco che la migrazione è trasversale: 1999: Martin Sheen (The West Wing) e William Petersen (CSI); 2002: Forest Whitaker (The Twilight Zone); 2003: Sally Field (Brothers & Sisters); 2006: Harvey Keitel (Life on Mars); 2011: Madeleine Stowe (Revenge)…
Drama e comedy adesso vengono assemblati attorno all’aura comunicazionale del nome X-listed perfettamente interscambiabile con quello successivo – “built-in recognition factor of a big star”. Ma non tutte le scelte e le motivazioni sono le stesse per il settario e segmentato comparto attoriale hollywoodiano. Tant’è che gli A-list, il Monte Rushmore dei nomi losangelini – Brad Pitt, Julia Roberts, Tom Cruise, Will Smith, Angelina Jolie… –, è ancora da venire nei palinsesti, ma lo scricchiolio si fa più intenso da quando Dwayne Johnson, muscolo attoriale da 3 miliardi e mezzo di dollari di incasso worldwide e nominato da Forbes top-grossing actor of 2013, esordirà sulla HBO come protagonista e produttore esecutivo di Ballers. Oppure dallo scoppio della “female complaint” – l’ennesimo shrinking hollywoodiano –, cioè il sempre minor numero di parti centrali e interessanti per le attrici, bolla esplosa in modo violento con gli speeches di Cate Blanchett agli Oscar e il coming out di Ellen Page, che fa da contraltare alla fresca valle che è invece la TV per le questioni di genere, con le varie e numerose Glenn Close (Damages), Anna Paquin (True Blood), Toni Collette (United States of Tara), Laura Linney (The Big C), Claire Danes (Homeland), Jessica Lange (American Horror Story), Laura Dern (Enlightened), Kerry Washington (Scandal), titolari di serie e personaggi complessi, controcorrente, impattanti.
Ed è, anche e soprattutto, immagine, superficie, riflesso che si consustanzia nelle accecanti serate degli Oscar e degli Emmy, dove, di nuovo, è visibile lo shift che si è creato sotto i piedi e nelle mani degli attori: mentre l’affaire DiCaprio impazza subito prima e subito dopo la notte dell’Academy, la statuetta della donna che regge un atomo va a James Gandolfini (I Soprano), James Spader (The Practice e Boston Legal), Bryan Cranston (Breaking Bad), Jeff Daniels (The Newsroom). Mentre le movie stars come Charlize Theron e Sandra Bullock puntano all’abbrutimento per trionfare, dall’altra parte del red carpet sfilano le vittoriose Patricia Arquette (Medium), Helen Mirren (Prime Suspect) e Kate Winslet (Mildred Pierce).
Il red carpet sotto l’home theatre
È il D-Day, le movie stars fanno gli americani, le tv stars fanno i tedeschi e Omaha Beach è lo spettatore: se sarà storia, allora l’invasione avrà successo, se sarà ucronia, allora qualcosa potrebbe divergere. Molti sono i tesori che bramano i cinematografici americani e molte sono le trappole piazzate dai televisivi tedeschi. Il brilluccichio che si intravede oltre le linee nemiche è essenzialmente uno e risponde al richiamo della syndication, l’unico modo che hanno le star hollywoodiane di bilanciare l’ancora netta disparità di ingaggi tra le due sfere spettacolari. Lo shrinking che affligge gli studios comporta infatti da una parte un blocco degli stipendi degli attori cinematografici e, dell’altra, una corsa al rialzo dei rischi legati alla produzione di blockbuster e franchise che possono equamente sfondare o affondare; il compenso televisivo, al contrario, pur essendo molto basso rispetto al suo corrispettivo cinematografico, è sicuro, stabile e può in molti casi essere presente nel tempo, grazie appunto alla syndication che apre le porte a revenues continue, grazie al famoso pacchetto dei 100 episodi che permette repliche su repliche dalla East alla West Coast, in qualunque fascia oraria e per qualunque rating. Questo specchietto per il portafoglio è ben agitato dai network, che lo brandiscono esternamente ed internamente, nel primo caso attirando attori e attrici grazie anche a tutti i commercials legati al brand in questione, e nel secondo caso muovendo queste pedine attoriali sull’infinito scacchiere della guerra tra canali, con carnet di attori legati ad un solo network che tanto ricordano lo studio system – nel 2013 la CBS con Robin Williams e Sarah Michelle Gellar (The Crazy Ones), Jonny Lee Miller e Lucy Liu (Elementary), Chris O’Donnell (NCIS: Los Angeles), Jim Caviezel (Person of Interest), Ashton Kutcher (Two and a Half Men), Elisabeth Shue (CSI); la Fox con Kevin Bacon (The Following), Zooey Deschanel (New Girl), Seth Green e Giovanni Ribisi (Dads), Greg Kinnear (Rake)…
Come scrivevamo poco sopra però, le scelte, le motivazioni e i risultati sono dei più disparati e così, accanto a storici fallimenti nati e morti attorno al solo nome attoriale – Bette Midler (Bette), Whoopi Goldberg (Whoopi), Heather Graham (Emily’s Reasons Why Not), Christian Slater (My Own Worst Enemy e almeno un altro paio), Christina Ricci (Pan Am), Ashley Judd (Missing), James Caan (Back in Game) –, tutte serie spuntate dal “built-in recognition factor of a big star” senza alcun altro sostrato, fanno da contraltare per operazioni calibrate e consapevoli, dove attorno alla movie star di turno sono saldati dei solidi discorsi narrativi, registici e identitari: Holly Hunter e Saving Grace, Gabriel Byrne e In Treatment, il duo Jason Schwartzman/Zach Galifianakis e Bored to Death, Steve Buscemi e Boardwalk Empire, William H. Macy e Shameless, il trio Dustin Hoffman/Dennis Farina/Nick Nolte e Luck. Anche semplicemente leggendo il plot summary, è lampante come questi nomi non siano occasionali ma necessari a questi titoli, che esista un rapporto bi-univoco tra le carriere cinematografiche pregresse e future degli attori e la loro serie televisiva. Lo scientifico typecasting di cui erano sani portatori al cinema diviene lama affilata in tv, così non soltanto sbarca sul piccolo schermo un nuovo ventaglio di generi prima annacquati dalle definizioni-ombrello di drama e comedy, ma questi stessi titoli divengono ben presto riferimenti inaggirabili per lo stesso sistema tassonomico hollywoodiano – Kiefer Sutherland e l’action di 24, Jeremy Irons e l’historical di The Borgias, il duo Kevin Spacey/Robin Wright e il thriller politico di House of Cards, il duo Matthew McConaughey/Woody Harrelson e il crime drama di True Detective.
Ed è sorprendente da pensare, scrivere e leggere, ma gli attori hollywoodiani spesso si sporcano e divengono promiscui in TV, rischiando il tesoretto di immagine e consensi accumulato nei begli anni al cinema. Infatti molte delle serie che hanno rivoluzionato la scrittura, la regia, la fruizione, i rating dell’ultimo quindicennio televisivo passano attraverso l’interpretazione, e a volte anche la produzione, di star losangeline da William Petersen e CSI con il suo franchise presente in tre diverse città americane e le modalità immersive di esplorazione dell’ “oggetto” crimine, a Kiefer Sutherland e 24 con un montaggio che prima di tutto è narrativo e la dispersione è la capillarità dell’azione, e il duo Kevin Spacey/Robin Wright e House of Cards con un’iper-compressione della serialità.
La televisione americana è dunque un panorama in continua espansione e mutazione. È qui che grazie alla liberazione di nuove formule e protagonisti si assiste all’unico vero spostamento di mercato dalle major ad altre, indipendenti, realtà, con le Big Five dell’etere sempre più assediate anno dopo anno da nuovi network quali AMC, FX, PBS o History Channel, capaci di produrre serie quali The Walking Dead, Sons of Anarchy, Hatfields & McCoys, fenomenale mix di premi, rating, generi e qualità. Ed è qui che i colpi di coda e testa attoriali più importanti vengono perpetrati, con scelte radicali che spiazzano agenti e fandom, come quello recentissimo di Matthew McConaughey, che anche grazie alla next big thing di ogni sistema spettacolare della prima metà del 2014, True Detective, ha portato a compimento la sua rinascita attoriale dopo il periodo-Kate Hudson…
Rosso red carpet
Questa lunga cavalcata non terminerà tanto presto. Però da lontano, sugli spalti e in controluce, si possono già trarre alcune tendenze prima dell’ultima curva. Quanto, ad esempio, l’occupazione del primetime televisivo da parte delle movie stars influenza un prodotto? Si potrebbe forse abbozzare l’idea che la star hollywoodiana coaguli tutto attorno a sè, piegando con la pura forza dell’immagine la natura stessa delle serie che, da democrazia delle crew attoriali, sono divenute tirannici one-person show tarati sul divo del momento. E questo quanto pesa sugli ex-padroni di casa? Le star della televisione ora sono molto più diffidenti nel passare al grande schermo, prendono il timing con precisione assoluta, di più, rifuggono dai tentpole movies scegliendo i loro progetti con attenzione ed efficacia. Ma questo implica anche un ulteriore shrinking di ritorno, con un assottigliamento degli spazi televisivi a disposizione per esordire ed emergere. E tenendo sempre presente come l’attore medio americano non sia abituato alla naturale e britannica ondulazione tra teatro, televisione e cinema, allora lo spettro del typecasting inizia ad aggirarsi tra i network… Le cose si complicano e si affascinano se includiamo l’ultima frontiera della produzione televisiva, ovvero la realizzazione di serie tratte da pellicole cinematografiche: con Fargo, About a Boy, Dal tramonto all’alba, Constantine, al netto delle differenze di trama e ambientazione, abbiamo una contrapposizione diretta nella scelta del casting e nell’immagine attoriale tra la stella cinematografica e quella televisiva – soprattutto nella serie FX, che può schierare nei credits Martin Freeman, Billy Bob Thornton, Keith Carradine e Oliver Platt.
Perché in definitiva di questo si tratta, dell’accaparrarsi pezzi di immaginario collettivo troppo simili tra di loro e tenerseli stretti. E ad oggi le modalità per farlo non soltanto sono di più, ma sono più spietate ed elettrizzanti. Il paradosso è scegliere un red carpet da movie stars e trincerarsi nell’esperienza, o uno da tv stars e darsi alla relazione. I due regimi di produzione culturale sono questi: da un lato l’esperienza unica e delimitata del cinema, grazie – ancora e comunque – al buio della sala, ma anche della spettacolarizzazione, del suo essere prima di tutto immagine estetica, dell’assoluta alterità dell’attore, e dall’altro il rapporto relazionale e continuo con la televisione, il suo essere rito intimo e collettivo da espletare sul posto – ovunque esso sia, anche in continuo movimento, grazie a device di ogni tipo – con tanti e diversi romanzi contemporanei per tante e diverse età, con star e personaggi che crescono nello stesso tempo in cui cresciamo noi.
Luigi Coluccio – Sentieri Selvaggi
Bettaro
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