Cinema

Wish I Was Here: la recensione

wish_i_was_here_-_h_-_2014Zach Braff. Un nome che sembra provenire da lontano, da un altro tempo, da un altro mondo, che magari attribuiresti all’immaginazione di Charles M. Schulz, un suono che sarebbe potuto saltar fuori dall’anarchia rumorosa di un verso futurista. E, invece, Ventunesimo secolo, anni Zero. Gli orrendi anni Zero, lo sappiamo, lo ripetiamo, come ancor prima gli anni Ottanta, lo abbiamo capito, semplicemente reaganiani o craxiani, quando eravamo piccoli e, nonostante Bastian, Atreyu e La storia infinita (del resto, la memoria di quel film è cominciata necessariamente dopo per chi è nato a metà del decennio), non sapevamo ancora che la morte della fantasia era iniziata. Poi, certo, Zachary Israel Braff… va beh. Sì, insomma, ci piace Zach Braff, perché sin dai primi tempi di Scrubs sapevamo che “J.D.” era, sarebbe potuto essere, uno di noi, un amico. Già prima di essere Zach Braff, in effetti. Ecco, gli stessi rimasugli di immaginazione o di immaginario che in seguito ci avrebbero consentito di credere perfino possibile un’amicizia, mettiamo, con una Jennifer Lawrence. Sì, proprio lei, perché dopo averla conosciuta, dopo i pensieri iniziali più automatici, scontati, maliziosi, ecco infine la scoperta di una ragazza un po’ imbranata, insicura, goffa, affettuosa, a cui volere bene, a cui raccontare di noi.

 

E alla fine lo sappiamo che Zach e Jennifer sarebbero davvero la nostra coppia perfetta. Aspettiamo un Zach and Jenny Make a Love. Intanto in La mia vita a Garden State, film d’esordio di Braff dietro la macchina da presa, era stata la Sam di Natalie Portman a salvare la vita, l’amore, nel New Jersey, a Andrew Largeman (sempre Zach), quel ragazzo tornato a casa per il funerale della madre. E la scelta dell’attrice fu determinante per ottenere i soldi che avrebbero permesso di produrre il film, dopo diversi tentativi andati a vuoto, nonostante il successo di Scrubs. Dieci anni dopo, con Wish I Was Here, un mese di riprese a Los Angeles fra agosto e settembre 2013, film presentato in anteprima mondiale al Sundance quest’anno e la cui produzione è stata resa possibile grazie a una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma Kickstarter (e non sono mancate le critiche per questa scelta), il Nostro torna a dirigersi in una melancomedy, scritta con suo fratello Adam, che sembra però puntare più in alto rispetto alla prima regia. Mantenendo, dunque, certi umori di racconto diversi, complementari, ma provando al contempo calibrature più introspettive, intime, più complesse, facendo della famiglia un luogo più problematico che disfunzionale questa volta, o diversamente disfunzionale, di nuovo uno specchio, ma un altro, più grande.

 

Ed è anche per questo che non c’è da sorprendersi dell’accoglienza negativa di buona parte della critica americana che ha bollato il film come un notevole passo indietro rispetto all’opera precedente, ma La mia vita a Garden State era forse più “facile”, in un certo senso. E probabilmente sì, anche migliore di Wish I Was Here, che sembra quasi perdersi in alcuni momenti, come se il quadro maggiormente sfaccettato – fatto di più personaggi, a comprendere più cose, più emozioni, più mancanze e frustrazioni, legami, anche quasi slegati, nonostante il centro sia l’Aidan/Breff – alle volte diventi un girare attorno ai personaggi, al film, con segmenti di storia che paiono parentesi in eccesso, la sensazione di un film più lungo della sua effettiva durata. Eppure, questa opera seconda certe corde riesce a toccarle, sa dialogare con lo spettatore, sa diventare qualcos’altro, appartenere ad altri. E non è poco.

 

C’è anche chi nel racconto di crescita, di scoperta del protagonista (di nuovo, per altre vie, dopo La mia vita a Garden State) in parallelo ai piccoli spazi di sogno, di fantasia del film (del resto l’incipit è nelle parole Aidan, che ritorneranno: “Da piccolo, io e mio fratello facevamo finta di essere eroi… con le spade. Eravamo gli unici che potevano risolvere la situazione. Ma forse avevamo puntato troppo in alto, eravamo solo persone comuni, quelle che vengono salvate”) ha individuato punti di contatto con il bellissimo I sogni segreti di Walter Mitty. Non siamo d’accordo, ma resta il fatto che questo Aidan Bloom, aspirante attore che finora ha fatto ben poco e di scarso rilievo (come Andrew Largeman), che non riesce a trovare la sua strada, a realizzare il suo sogno (l’anziano rabbino gli ricorda che la sua felicità l’avrebbe avuta a cuore un Thomas Jefferson, non certo Dio), questo Aidan sposato con Sarah (una bellissima e ottima Kate Hudson), lavoratrice insoddisfatta e madre dei suoi due figli, Grace e Tucker, che frequentano la scuola ebraica ma non potranno più farlo perché il nonno paterno (Mandy Patinkin), vedovo, da sempre poco in sintonia con Aidan e sopratutto suo fratello Noah (Josh Gad), è gravemente malato e per curarsi non potrà più pagare gli studi dei nipotini… Ecco, questo Aidan Bloom, dicevamo, ci piace, come Zach Braff che qui, forse più come attore, dimostra di possedere in alcuni frangenti i gradi di un’intensità anche drammatica che prima o poi dovrà tirar fuori in maniera più esplicita, Zach Braff che qui prova a raccontare il suo mondo, la sua cultura, in qualche modo la sua storia. E allora può perfino esserci Donald Faison (o Chris Turk) in Wish I Was Here. Ora aspettiamo Jennifer, che dopo Natalie e Kate, ci starebbe proprio bene. E che il simpatico Bradley Cooper, per un po’, si faccia da parte. O, se proprio necessario, che al massimo faccia l’amico di Zach.

Recensione originale da parte di Leonardo Gregorio per Sentieri Selvaggi. Sottotitoli a cura di ItaSA.

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Bettaro

Nerd e fisico, ma più simpatico di quelli di TBBT. Marvel fan, Star Wars fan, Halo fan. Stregato da Arrested Development e Life on Mars. Su ItaSA Blog dal 2012, sono dietro a ogni pessima decisione editoriale.
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