Nuova classifica sul meglio che il 2018 abbia offerto, la top odierna riguarda i migliori film ambientati nella periferia del Nord America. La domanda sorge spontanea: tra tutti i possibili temi, perché scegliere proprio questo? Una tematica così specifica, geolocalizzata e lontana sembra paradossale se non addirittura presuntuosa. La risposta è presto detta: non sono riuscito a trovare un altro tema che rappresentasse in maniera così profonda, emblematica e con uno spettro così ampio l’intera realtà occidentale che abbiamo vissuto lo scorso anno. Forse mai nella storia moderna gli hinterland (tanto quelli americana quanto quelli italiani, che hanno sfornato nella medesima annata un capolavoro come Dogman e un grande debutto come La terra dell’abbastanza) hanno avuto un’incidenza così profonda e deflagrante sul mondo intero come in questo caso.
Con il termine “periferia” non mi riferisco solo ai sobborghi della classe media, mi riferisco all’America profonda: quella terrorizzata dall’economia fluttuante e messa in ginocchio dalla crisi, quella profondamente repubblicana, diffidente dei new media e del progresso tecnologico, quella rancorosa e armata fino ai denti. Quella che ci è sempre sembrata una realtà distante, persino divertente da vedere ridicolizzata nella maggior parte dei film, è ora più che mai un riflesso fedele di tutti i sentimenti che stanno scuotendo l’Occidente. La presidenza di Trump, l’ascesa delle destre in Europa, la guerra al politically correct e alla burocrazia, il terrore dei poteri forti e la paranoia che ne deriva, lo scontro sull’immigrazione, il dominio della Trumponomy, il giustizialismo, la disillusione persino verso la scienza… sono solo alcuni dei temi più importanti del 2018 e l’ambito migliore in cui poterli esplorare è proprio quello delle periferie, luoghi limitrofi sia nella geografia che nell’anima. Sia chiaro: il discorso prescinde dall’essere di destra o di sinistra, di certo Italiansubs non è interessata a fare propaganda a uno schieramento o all’altro.
Questa è la classifica dei film che ho trovato essere i più emblematici. Sono considerati solo i film distribuiti in Italia nel 2018, non si tiene conto dell’uscita originale. Ci potrebbero essere spoiler, anche se saranno ridotti al minimo.
10 – LOGAN LUCKY – LA TRUFFA DEI LOGAN
Ultimo posto per Steven Soderbergh, mio personale pupillo sia in ambito cinematografico che in ambito televisivo. Nel breve periodo che intercorre tra la chiusura del suo capolavoro seriale The Knick e l’acclamato horror Unsane, Soderbergh ha trovato il tempo di girare questa deliziosa heist-comedy.
Siamo nella periferia della Carolina del Nord, qui la crisi economia e lavorativa è ancora una realtà dieci anni dopo il disastro dei subprime. Jimmy Logan (Channing Tatum) è un ex-operaio disoccupato che passa le giornate con il fratello Clyde (Adam Driver), veterano di guerra senza un braccio, o con la figlia Sadie (Farrah Mackenzie). Tutto cambia quando la sua ex-moglie (Katie Holmes) decide di trasferirsi in Virginia con il suo nuovo compagno, portando con loro la piccola Sadie. Jimmy decide così di arruolare una famiglia di redneck locali per rapinare i suoi precedenti datori di lavoro: la NASCAR, una delle più importanti compagnie automobilistiche e sportive d’America.
Quello che su carta sembra un un dramma a sfondo sociale, avendo tra i protagonisti un veterano mutilato, è invece un piacevole e onesto viaggio nelle contraddizioni della società occidentale. Non c’è giudizio morale verso i personaggi e le vicende, tanto più che la questione è spinosa e ancora aperta: quando il cittadino viene tradito dallo Stato in cui confidava (che sia per la guerra, per Clyde; o per la crisi economica, per Jimmy), è giustificato a vendicarsi contro il sistema che lo ha truffato? Mette in scena tematiche sentite da tutto l’Occidente quali il giustizialismo, il bisogno di rivalsa sociale e la paura dell’economia con toni leggeri, auto-ironici e toccanti. Il tutto sorretto da una regia, un montaggio e una fotografia di prima classe, tutti aspetti curati da Soderbergh in prima persona come è solito fare.
9 – LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS
Ci troviamo nelle lande sperdute del Far West, le periferie più lontane possibili nello spazio-tempo statunitense. Il discorso è suddiviso in sei storie antologiche unite da simili sfondi morali tipicamente coeniani; il fatto che tutti gli episodi siano presentati come fiabe all’interno di un libro esplicita subito la lettura simbolica ed esemplare di ciò che stiamo per vedere. Questo discorso morale, necessario in ogni fiaba, si struttura su più livelli: in primo luogo ogni storia racconta un’angolazione diversa della poetica dei Fratelli Coen (il destino, l’inevitabilità della morte, il caso/caos della realtà…), da cui si possono estrapolare numerose considerazioni etiche. Emblematico il secondo, brevissimo capitolo: un rapinatore (James Franco) assalta una banca e una catena di eventi lo porta a essere condannato a morte due volte; nel finale, prima di essere impiccato, vede per pochi istanti una bella fanciulla nel pubblico sottostante al patibolo e muore mentre è ammaliato dalla sua bellezza. Il significato non è scontato: la morte è sia inevitabile (egli era condannato fin dall’incipit) sia evitabile (perché tutto ciò deriva da una sua scelta), è una dicotomia di verità contraddittorie che i registi avevano già reso nota nel loro capolavoro L’uomo che non c’era; tutto ciò comunque non ha importanza perché la morte non può togliere valore alla vita e tutto ciò che essa ha da offrire: questa idea di “magica” imperscrutabilità è incarnata dalla fanciulla sconosciuta, la quale permette un ultimo istante di emozione al protagonista.
In secondo luogo tutte le storie hanno un valore assoluto o persino parallelismi con la realtà contemporanea. Si veda il terzo episodio, Meal Ticket, tragedia sorda e gelida che critica la mancanza di interesse verso la cultura in una società sempre più terrorizzata dalla povertà, avvinghiata a qualunque superstizione (ossia intrappolata nelle narrazioni) molto più che all’arte (ossia disinteressata al disvelamento delle narrazioni precostituite), è infine una versione originale e moderna dell’homo homini lupus, con evidenti analogie all’America attuale.
Non il miglior film dei Coen, non è nemmeno la loro migliore opera del decennio (Inside Llewyn Davis per chi scrive rimane un autentico cult), ma è fuor dubbio che sia uno dei lungometraggi più interessanti dell’anno.
8 – BRAWL IN CELL BLOCK 99
Dimenticate i toni leggeri di Logan Lucky o i racconti simbolici di Buster Scruggs, con Brawl in Cell Block 99 entriamo nei sanguinari territori dell’exploitation e del grindhouse.
La trama è semplice: Bradley Thomas (uno straordinario Vince Vaughn) è un carrozziere di periferia che si improvvisa spacciatore dopo aver perso il lavoro; in seguito a una retata viene catturato dalla polizia e la partita di droga che custodiva viene perduta. In carcere viene ricattato dai suoi capi, che minacciano di uccidere sua moglie (Jennifer Carpenter) nel caso in cui lui non portasse a termine un ordine: uccidere un prigioniero chiamato Christopher Bridge. Bradley accetta l’incarico, e inizia il suo viaggio sempre più rabbioso e violento verso gli abissi del sistema carcerario, senza possibilità di redenzione o di uscita.
La critica al fallimento delle istituzioni e dello Stato (anche qui la paura dell’economia è presente), all’autoritarismo, a un sistema di giustizia che offre solo vendetta e nessun intento correttivo, emerge con tutta la violenza possibile. Ciò che però rimane allo spettatore dopo la visione è un altro aspetto, quello della descrizione umana e sociale. Si tratta di un’America differente, che riesce a essere tanto brutale ed efferata (al pubblico non viene risparmiato nessun dettaglio, tra crani spezzati e arti sbriciolati) quanto fragile ed emotiva, un’umanità scolpita nel sangue e nella paura che cerca solo un briciolo di stabilità. La scena finale è emblematica di questo doppio impulso verso la vita e verso la morte, una sequenza di una potenza estrema che riesce in ugual misura a essere soddisfacente, agrodolce e raccapricciante.
Un’autentica bomba di film, che quando prende ritmo diventa inarrestabile e non offre un secondo di respiro.
7 – I SEGRETI DI WIND RIVER
Il film in questione è il capitolo conclusivo della “Trilogia della frontiera” scritta da Taylor Sheridan, qui al suo debutto registico, i cui capitoli precedenti sono gli ottimi Hell or High Water e Sicario. Il tema centrale delle opere è l’analisi delle nuove frontiere dell’età contemporanea: quella metafisica del neo-western nel primo caso, quella materica che separa Stati Uniti e Messico nel secondo. In Wind River ci allontaniamo dal Texas e dal Messico per andare nelle gelide lande delle riserve indiane del Wyoming, per metterne a nudo le violenze perpetrate nel silenzio più assoluto.
Il discorso è più tagliente e al contempo sottile che negli altri capitoli, in quanto il film è costellato di frontiere di ogni tipo: burocratiche, legali, culturali, ambientali (e forse proprio l’ambiente sarà il colpevole astratto, intangibile di tutta la vicenda), epistemologiche, persino spazio-temporali nel momento in cui Sheridan ha scelto di sfruttare una frattura inconciliabile tra passato e presente come asse narrativo di tutta la storia.
Wind River si dipana come un classico thriller-giallo, con poliziotti dal passato oscuro e un omicidio che richiede giustizia. Quello che lo innalza a uno dei migliori film dell’anno è il taglio poetico e personale che il regista-autore ha impresso al tutto: non tanto nella sceneggiatura (purtroppo imperfetta) ma nelle atmosfere che ha meticolosamente creato. Siamo catapultati in un mondo irreale e sospeso nel tempo, con momenti di violenza brutale e improvvisa mischiati a pause narrative intimiste, genuine nel messaggio che vogliono lasciare e perfettamente poste nel racconto.
Quello che in conclusione il film lascia è un indelebile retrogusto amaro, ma ancora più importante lascia un inventario di domande sull’umanità di ognuno di noi e le frontiere che abbiamo dentro. I propri limiti, le proprie paure, sconfitte, certezze. E nell’ultima inquadratura Sheridan suggerisce che proprio da queste debolezze potrà rinascere un nuovo umanesimo, da queste fondamenta comuni forse è possibile ripartire per capire la diversità e abbracciarla.
6 – HEREDITARY
Uno degli horror più acclamati del terzo millennio non poteva mancare. Il film possiede elementi tratti dai più disparati sottogeneri: abbiamo spiriti maligni, streghe, boschi lugubri (in cui la famiglia protagonista vive), esorcismi, sette e culti satanici, una venatura zombie nel finale, la paranoia dell’home invasion; il tutto narrato con una struttura non riconducibile pienamente a nessun genere. Sinteticamente possiamo dire che sia un horror psicologico-famigliare che sfrutta tutti gli elementi sopracitati per sviscerare tematiche quali il senso di colpa, la repressione, i traumi passati e l’incomunicabilità. Ciò che colpisce di più è che simili sottotesti sono messi in scena nella maniera meno didascalica possibile, sono infatti perfettamente connaturati con l’aspetto orrorifico della trama: la psicologica e l’orrore si alimentano a vicenda, e sono infine inscindibili nelle loro implicazioni. Più sottilmente quello che collega tutti gli elementi è la già citata paranoia, insinuata minuto dopo minuto grazie a una giostra di prospettive divergenti che, nell’arco del film, rende ogni singolo personaggio in una certa misura un antagonista degli altri.
Un’opera del genere poteva essere ambientata soltanto nella periferia, perché il senso di isolamento e di separazione che essa possiede è essenziale per portare a ebollizione i suddetti temi. Come i grandi horror degli anni ’70-’80 mettevano in luce tutto il lato oscuro dei sobborghi, Hereditary fa lo stesso gioco aprendosi all’immenso immaginario popolare nei luoghi in cui molto spesso sono nati i sentimenti rivoluzionari, esattamente come il finale tematizza, in modo grottesco e terrificante, un senso di rivoluzione imminente. Hereditary rappresenta, forse senza saperlo, molti dei grandi scossoni che abbiamo vissuti negli ultimi anni, catturandone con precisione lo spirito di incredulità e di incomprensione, sicuramente canalizzando la paura intangibile che muove tutto e tutti. Un pastiche postmoderno tra i più riusciti.
5 – BLACKKKLANSMAN
Primi anni ’70, Colorado, siamo nel bel mezzo della guerra civile per i diritti degli afroamericani tra polizia, Ku Klux Klan e Black Panthers. In un simile contesto il tanto amato quanto odiato Spike Lee non può che sguazzarci. Il film è una versione romanzata della vera storia di Ron Stallworth (nel film interpretato da John David Washington), poliziotto afro che aveva organizzato un’infiltrazione della polizia all’interno del KKK.
È il film più schierato politicamente della lista, nella sua critica sociale punta il dito dritto verso Donald Trump e i suoi seguaci: basti dire che nel film il Presidente (soprannominato da Lee “Agent Orange”) compare in controversi filmati di repertorio e lo slogan America First viene esaltato da suprematisti bianchi. Chiunque conosca il regista sa che la sua visione della politica americana è profondamente partigiana e legata alla rivolta popolare, anche a costo di essere riduzionista e semplicista nei messaggi che vuole portare avanti. È noto infatti che la vittoria di Trump non è dovuta al mero razzismo ma è in ottima parte conseguenza di ritorsioni contro la deludente presidenza Obama e una certa evoluzione del pensiero liberal, quindi la faziosità del film va presa con le pinze.
L’aspetto moralistico è comunque minore, mentre la potenza cinematografica dell’opera è innegabile: questo per via di un’atmosfera densa di tensione e ritmo, con personaggi ben scritti, dialoghi fulminanti e una regia che mostra tutta l’esperienza dell’autore. Il punto più alto del film è la sequenza finale, nel momento in cui viene rotta la quarta parete con una carrellata quasi godardiana e le vicende fittizie precipitano nella cronaca nera: nel bel mezzo degli scontri di Charlottesville nel 2017, mostrando le violenze accadute tramite video di repertorio (compreso l’omicidio di Heather Heyer da parte del neo-nazista James Fields). Al di là degli schieramenti è un finale che non può lasciare indifferenti in alcun modo, una conclusione che ci ricorda che la retorica non è solo astrazione fine a se stessa ma si può tramutare in tragedia. Una questione che necessita di riflessioni tanto in America quanto in Europa, da parte di tutte le fazioni.
4 – FIRST REFORMED
Vi ricordate quel film scritto da Paul Schrader in cui un veterano di guerra si innamora di una donna e, a causa della malignità della politica, decide di compiere un massacro per salvare il mondo che lui vede come perduto? No, non mi sto riferendo a Taxi Driver, sto parlando dell’ultimo film dell’autore: First Reformed.
Qui siamo a Snowbridge, sobborgo desolato fuori da New York. La storia è quella appena descritta, ma invece che un tassista sociopatico abbiamo un reverendo malato (interpretato da un eccelso Ethan Hawke) che viene messo a dura prova dal suicidio di un attivista ecologico che conosceva. Dopo aver intuito le più recenti scoperte sul pericolo del cambiamento climatico, il reverendo Toller entra in una spirale di depressione e ira che gli fa meditare vendetta contro alcuni dei più potenti industriali d’America. La questione lungo cui si muove la pellicola è tanto semplice quanto profonda: per un credente è meglio non intervenire, riporre in Dio la speranza che la Terra possa salvarsi e che gli industriali possano redimersi; oppure è meglio sporcarsi le mani con il sangue dei “peccatori” e tentare di salvare la Creazione? Violenza o tolleranza? Rivoluzione o perdono? Peccare di superbia nelle proprie certezze, o di ignavia nella scelta di non schierarsi?
Il film è incredibilmente moderno nelle questioni che pone e soprattutto nelle modalità in cui esse vengono poste: con effetti visivi (la scena in cui Toller sogna di volare in mezzo alle discariche è da antologia) e una dose di violenza tipici del cinema contemporaneo, ma con un ritmo e una regia che si riferiscono al grande cinema europeo. Per comprendere appieno il film è consigliato conoscere autori come Carl Theodor Dreyer e Robert Bresson, sapendo che film come Il diavolo probabilmente, Ordet – La parola e Il diario di un curato di campagna costituiscono l’ossatura stessa dell’opera.
L’unico motivo per cui First Reformed non è nel podio è a causa del dazio che paga a Taxi Driver per le eccessive somiglianze, ma stiamo parlando di un film dalla forza dirompente, una bellezza visiva innegabile e con un finale letteralmente folgorante.
3 – TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
Inizia il podio e voglio dire subito che questo è oggettivamente il miglior film sulla periferia dell’anno, quello che a livello cinematografico e narrativo è il più azzardato nonché completo. Basterebbe il piano-sequenza della defenestrazione per definirlo tale. Perché allora è solo terzo? Perché i primi due sono meno virtuosi nell’insieme ma forniscono spezzoni di realtà che ho trovato ancora più interessanti e densi di significato, per questo ho voluto premiarli.
Si è parlato tantissimo di Tre manifesti a Ebbing, Missouri quando un anno fa era in concorso agli Oscar, vincitore di alcuni meritatissimi premi (miglior attrice e miglior attore non protagonista), quindi non voglio scriverne troppo a lungo. Si tratta di una delle rappresentazioni più rabbiose, emotivamente violente e destabilizzanti della periferia americana dai tempi di Fargo. La stessa eroina del film, Mildred Hayes (interpretata da Frances McDormand), è tutto tranne che una santa: ha la stessa rabbia e intolleranza verso la società di quelli che sembrano gli antagonisti, ovvero lo sceriffo Bill (Woody Harrelson) e l’agente Jason (Sam Rockwell), i poliziotti incolpati dalla donna di non aver risolto l’omicidio della figlia. L’evoluzione dei tre personaggi è per certi versi simile, creando una triangolazione di caratteri: l’insensibilità di cui si sono ammantati diminuirà nel corso della storia, senza però scomparire. Il finale, tanto beffardo quanto agghiacciante, rappresenta in chiave grottesca quella polarizzazione di sentimenti che è ormai la quotidianità sui social, nei notiziari e quindi nella nostra vita quotidiana. Una scena in cui dolcezza e giustizia coesistono perfettamente con la brama di morte e sofferenza, in cui Eros e Thanatos hanno finalmente trovato un punto di equilibrio. E noi lo troveremo mai un equilibrio?
L’ultima fatica di Martin McDonagh è un film essenziale degli ultimi anni, personalmente non lo ritengo il suo più riuscito (ho preferito sia l’idiosincrasia sperimentale di 7 psicopatici, sia la follia perfettamente controllata di In Bruges) ma non di meno è un’opera folgorante e indimenticabile.
2 – SENZA LASCIARE TRACCIA
Dopo aver diretto il bellissimo Winter’s Bone, la regista Debra Granik è sparita dalla circolazione per otto lunghi anni. Nel 2018 è finalmente ricomparsa con il suo terzo film che rappresenta un ulteriore passo verso la maturità autoriale.
Senza lasciare traccia racconta un tema affascinante ma poche volte rappresentato al cinema: quello dei survivalisti. La storia è incentrata su Will (Ben Foster) e sua figlia Tom (Thomasin McKenzie) che vivono da sempre in boschi e parchi pubblici dell’Oregon, passando le giornate spostandosi in continuazione per non essere braccati dalla polizia. Tutto cambia quando vengono presi e schedati dai servizi sociali, venendo poi costretti a vivere in una comunità con altre persone e soprattutto a contatto con la tecnologia moderna. I due decidono di scappare, scoprendo passo dopo passo differenze di vedute sul mondo che diventeranno infine inconciliabili.
Quello che è uno dei film più acclamati dell’anno è anche uno dei più intimi, posati e riflessivi. Tutto si basa sui silenzi dei protagonisti, i loro sguardi, i paesaggi e i rapporti con gli altri personaggi che incontreranno. La trama è un’espediente per raccontare un universo di conflitti irrisolti (i traumi dei veterani, la paura dello sconosciuto, la diffidenza verso lo Stato, la dipendenza dalla tecnologia, il controllo a cui ci sottoponiamo con i media digitali, il rapporto uomo-natura, il determinismo e lo scontro tra razionalità e impulsi profondi), questioni rappresentate con un ritmo meditativo ma essenziale, lento senza essere ridondante. È puro cinema nella misura in cui ciò che viene raccontato è difficilmente rappresentabile a parole, è un racconto che vive di suoni e immagini tanto quanto di sensazioni e pensieri. Soprattutto è un racconto scevro da ogni minima forma di compatimento o moralismo, non presenta la benché minima traccia di faziosità ideologica. È un altro grande manifesto di umanesimo, come era Wind River e come sarà il film in prima posizione, in cui nessuno perde e nessuno vince ma tutti possiedono un autentico pezzo di verità.
1 – LUCKY
Prima posizione per un altro dei film più discussi dell’anno: Lucky. Debutto alla regia di John Carroll Lynch (uno dei protagonisti della serie Body of Proof) e al contempo testamento artistico di Harry Dean Stanton, essendo l’ultima pellicola a cui ha preso parte prima della morte avvenuta il 15 settembre 2017, all’età di 91 anni.
La trama del film? Nei mesi precedenti all’uscita italiana avevo cercato in lungo e in largo qualche informazione, e l’unica riga di storia che continuava a comparirmi su ogni sito era questa: “Il viaggio spirituale di un ateo novantenne”. Una manciata di parole che significano tutto e niente, un paradosso concettuale difficile da rappresentare nel medium audiovisivo. Adesso posso dire che quella è la chiave di lettura perfetta.
Lucky è un novantenne nichilista e disilluso che vive nella cittadina semi-deserta di Piru, California; le sue giornate passano in monotonia: inizia con un po’ di yoga, risolve qualche cruciverba, va al ristorante locale a fare due chiacchiere, poi al bar e se ne torna a casa. Non ha mai avuto una relazione duratura né lunghe amicizie, è un uomo solo. Un giorno sviene e per la prima volta inizia a fare i conti con la sua mortalità. Il resto del film è incentrato sullo scontro tra Lucky e i suoi limiti di corpo e di anima, nonché le sue paura più profonde, che lo costringeranno a cercare un significato più profondo nella vita e in tutto ciò che lo circonda. Questo cammino troverà forse compimento negli ultimi, perfetti e catartici secondi della pellicola. Il viaggio spirituale citato prima è una ricerca di senso nell’umanità e non nella teologia, quello che poteva essere un polpettone melodrammatico diventa in questa luce un racconto di una delicatezza e autenticità più uniche che rare.
Proprio per questo motivo ho deciso di metterlo alla prima posizione: è l’unico film della lista a tralasciare la rabbia di questi anni per occuparsi del nocciolo della questione dell’esistenza, l’unico che ha raccontato la periferia con un’originalità totalizzante (in bilico tra il surrealismo, la metafisica, il realismo, il dramma e la commedia) e rendendola “assoluta” nel dialogo che apre con ogni spettatore, uno dei pochi che è riuscito a fare i conti col passato senza perdere la fiducia nel futuro. È un’opera che grida a squarciagola di non dimenticarci di vivere e amare rimanendo sepolti dalla fretta e dall’apatia, è al contempo un elogio della vita e un’elegia di tutte le sofferenze che essa porta con sé. Un atto di rivoluzione pacifica nei confronti di quello che è sia il regalo più grande, sia la truffa meglio orchestrata di sempre: la vita; in tutta la sua bellezza beffarda, intangibile e inspiegabile, proprio come l’ultimo sorriso che Harry Dean Stanton rivolge in camera verso il pubblico prima di scomparire nel deserto e abbandonare il cinema per sempre.
In sintesi si tratta di pura poesia filmica da ascoltare con la mente e il cuore aperti, qualcosa di assolutamente essenziale in questi tempi di facile disperazione e ancora più semplice nichilismo. Per quanto mi riguarda è la summa ideologica, poetica e artistica di quel colosso che è stato Stanton. Un film che racchiude tutto l’uomo e l’attore, che non è un semplice tributo nei suoi confronti ma è un’ultimo grande pezzo di vita che lui e i suoi collaboratori hanno lasciato al mondo.
-“La verità dell’universo ti sta aspettando: ogni cosa scomparirà. Tu, io, queste sigarette… ogni cosa, tutto sarà oscurità e vuoto. E non c’è nessuno a capo… e non ti rimane un cazzo! Niente!”
-“E cosa possiamo fare?”
-“…Sorridere”
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Alessandro
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