Sono ormai numerose le generazioni cresciute in simbiosi col piccolo schermo, le sue comodità e le sue imperfezioni. Proviamo a illustrare il nostro rapporto con la TV attraverso un pugno di serie che l’hanno raccontata, omaggiata, denunciata e presa in giro da dietro le quinte.
Siamo consapevoli di non essere gli unici, ma da queste parti con la TV abbiamo un rapporto di amore e odio. Amore perché gran parte del nostro lavoro è dedicato alle serie televisive, quelli che una volta chiamavamo telefilm, e perché in fondo le nostre generazioni anche il cinema l’hanno conosciuto e amato in primis sul piccolo schermo. Odio perché non ci ritroviamo più in quello che la televisione generalista attuale (italiana ma non solo) propone e perché anche le cose che amiamo (film e serie) sono spesso maltrattate da programmazioni senza senso, troppa pubblicità, impossibilità di scegliere il doppio audio o i sottotitoli e molti altri limiti che, oggi come oggi, non sono più così facilmente accettabili. Chi come noi lavora e vive sul web non può fare a meno che soffrirli questi limiti, e cerca di superarli in qualche modo, preferendo magari altri strumenti e mezzi più veloci, più moderni e, in fondo anche se non sempre, più affidabili. Ed è così che ai telegiornali da tempo preferiamo le news delle testate online, i film al di fuori del cinema li vediamo in blu-ray o online, e anche per le serie ci dividiamo tra satellitare e i nuovi servizi streaming quali Netflix, Infinity o NowTV.
Questo non significa che la TV tradizionale non abbia senso o non abbia meriti ancora oggi, ma è evidente che qualcosa è cambiato, e anche tanto, nel rapporto tra pubblico e televisione. Cosa ci rimane di quell’epoca in cui la TV regnava incontrastata? Per chi non è più tanto giovane ci sono i ricordi personali oppure i racconti di genitori e nonni, e poi ci sono ovviamente anche quei registi e quegli autori che il fenomeno della TV hanno saputo raccontarlo sul piccolo e grande schermo e in tutte le salse, mostrandocene pregi e difetti, sottolineando i limiti di oggi ma anche le (in)finite possibilità di un tempo. Abbiamo deciso in questo articolo di concentrarci soltanto sulle serie TV ambientate proprio sui set televisivi, ma ne vedrete comunque di tutti i colori!
Vengo dopo il tiggì
Cominciamo citando il mitico Indietro Tutta di Renzo Arbore – e in fondo la nostra personale (ma brevissima) storia d’amore con la televisione comincia proprio da lì – ma in realtà vogliamo parlare di qualcosa di ben più serio, ovvero di come le serie TV ci abbiano spesso raccontato il mondo dei notiziari e del giornalismo televisivo in modo ricco e completo, persino più di quanto abbia fatto a volte il cinema. La serie più nota su questo argomento è certamente The Newsroom, ultima (per ora?) opera per il piccolo schermo di quel geniaccio di Aaron Sorkin alla prima collaborazione con la HBO, che racconta le vicissitudini della fittizia Atlantis Cable News e di coloro che ci lavorano, a partire dall’anchorman Will McAvoy (Jeff Daniels) alle prese con una crisi personale.
La serie di Sorkin è in qualche modo diventata oggetto di culto fin da subito, soprattutto grazie al celebre monologo iniziale di Daniels sul perché l’America non sia più il più grande paese del mondo, eppure ha ricevuto critiche ferocissime da gran parte della stampa USA per il modo in cui ha rappresentato il mondo dei notiziari e trattato alcuni argomenti molto scottanti. Perché la forza, e anche il tallone d’Achille visto quel che è successo, dello show era stata l’idea geniale ma rischiosa di raccontare eventi d’attualità realmente accaduti qualche mese prima mostrando gli errori e i difetti di coloro che realmente li avevano raccontati in TV e proponendo quello che, secondo Sorkin almeno, sarebbe stato invece il modo corretto per raccontarli. Strano che la stampa USA non abbia amato questo The Newsroom, vero?
Di poco antecedente è invece The Hour, miniserie BBC del 2011, che racconta di un nuovo show politico settimanale ambientato del 1956 ai temi della rivoluzione ungherese e della crisi di Suez: nonostante le indubbie differenze date dal diverso contesto, la storyline principale è fondamentalmente simile nel raccontare questo gruppo di giornalisti e produttori che cercano di realizzare un programma che sia innovativo, rivoluzionario e, inevitabilmente, molto controverso. Ma raccontare il mondo TG non vuol dire necessariamente realizzare show politici e “pesanti”. Murphy Brown per esempio è una celebre sitcom andata in onda per 10 stagioni dal 1988 al 1998 e vedeva come assoluta protagonista una meravigliosa Candice Bergen, giornalista investigativa e presentatrice per un programma fittizio della CBS, FYI. Lo show si ispirava a fatti realmente avvenuti e così facendo non perdeva l’occasione anche per fare satira politica (tanto che un vicepresidente USA, Dan Qauyle, una volta citò lo show in un discorso ufficiale), ma il suo vero punto di forza era comunque nei personaggi e nella rappresentazione dei rapporti (professionali e non) tra i colleghi di redazione.
Concettualmente molto simile è anche la prima serie in assoluto del già citato Sorkin e dedicata all’altra grande passione dello sceneggiatore premio Oscar: lo sport. Sports Night, altra comedy di culto andata in onda dal 1998 ma precocemente cancellata dopo solo due stagioni, racconta di questo notiziario notturno dedicato agli sport a 360° con protagonisti gli irresistibili Peter Krause e Josh Charles nei panni dei presentatori, e Felicity Huffman in quelli della produttrice esecutiva. Sports Night anticipa molto di quello che di buono ci sarà poi nel capolavoro West Wing, a partire dalle celebri tecniche di ripresa del walk & talk e dai dialoghi e monologhi strappa applausi, ma al tempo stesso riesce davvero a trasportarci in uno studio di una stazione televisiva, forse meglio di quanto abbiano fatto, finora almeno, qualsiasi altro film o serie. E ci riesce facendoci ridere ed emozionare come solo Sorkin sa fare.
Di parodia in parodia
Sempre Sorkin d’altronde ha riprovato a parlare di TV con Studio 60 on the Sunset Strip, questa volta lasciando perdere i notiziari ma realizzando una sorta di copia del celebre Saturday Night Live, un vero e proprio mito intoccabile della cultura (televisiva e non solo) USA. Il risultato? Tante critiche (alcune giustificate, altre molto meno), tanto veleno indirizzato al suo autore ma anche tanti bersagli completamente mancati da parte dei detrattori che citavano come difetto principale dello show il non avere degli sketch sufficientemente divertenti o graffianti e di certo non all’altezza del SNL. Lo scopo di Sorkin però non era quello di rivaleggiare con lo storico show ma di raccontarci ancora una volta il backstage e le esistenze di queste persone che ne fanno la fortuna ogni settimana, spesso sacrificando le loro, di vite. In più Studio 60 – oltre ad essere come al solito divertentissimo e brillante, nonostante la scivolata pseudo sentimentale della parte finale dell’unica stagione – ha una fortissima componente autobiografica (di fatto racconta le difficoltà, anche con la droga, che Sorkin ebbe nel realizzare i primi intensissimi 4 anni di West Wing) e proprio per questo rappresenta una finestra privilegiata e più unica che rara su cosa voglia dire davvero fare uno show TV.
Aspetto che invece non ha mai rappresentato un vero interesse per la geniale Tina Fey, che proprio dal SNL ci proveniva quando nel 2006 portò sul piccolo schermo il fenomeno 30 Rock, sitcom satirica, ingegnosa e divertente come poche che segue la vita di Liz Lemon (la stessa Fey), sceneggiatrice per un altro programma fittizio in stile SNL. Anche qui sono presenti tanti riferimenti autobiografici ma l’intento è soprattutto quello di divertire e sfottere, a volte anche in maniera pesante, il mondo televisivo e la stessa NBC, un tempo baluardo delle serie di qualità, che in quel periodo cominciava a mostrare i segni di una crisi da cui ancora non si è ripresa. La serie (che vinse un totale di 11 Emmy per le sue sette stagioni) è nota anche per la quantità mostruosa di prestigiosissime guest star ma soprattutto è ancora oggi il simbolo della perfetta satira televisiva.
Un anno dopo l’enorme successo di Tina Fey arriva anche nel nostro paese uno show dedicato al dietro le quinte dei set televisivi: parliamo ovviamente del folle ma geniale Boris, che ha avuto nel 2011 anche un sequel cinematografico, che ha fatto propri gli insegnamenti di cui sopra ma è riuscito ad adattare perfettamente il tutto in un contesto nostrano e molto più “terra terra”. Il regista René Ferretti (un esilarante Francesco Pannofino) e il resto della sua sgangherata troupe non hanno velleità artistiche e di certo non vogliono far ridere, ma soltanto realizzare delle (becere) fiction televisive per il pubblico italiano generalista e dalla bocca buona. Quello che ne viene fuori è un ritratto irresistibile ma pungente e assolutamente realistico (come possono facilmente confermare tutti gli addetti ai lavori) di una realtà nostrana che a molti può sembrare vecchia e anacronistica ma che invece continua ad esistere e a piacere ad un determinato pubblico. Anche in questo caso non è difficile capire perché Boris sia uno show fondamentale e amatissimo da chi è lontano anni luce da un certo tipo di TV, e allo stesso tempo non è difficile capire come mai non abbia sfondato con il grande pubblico.
Angosce british
Dopo gli USA e l’Italia però spostiamoci in Gran Bretagna, dove ci aspettano alcuni progetti davvero particolari. Il più celebre tra questi è certamente Black Mirror, serie antologica creata da Charlie Brooker nel 2011 per Channel 4 e ora acquisita da Netflix, che sta per lanciare (il 21 ottobre 2016) la terza attesissima stagione. Se la serie di Brooker è diventata immediatamente un culto non è solo per la qualità di scrittura assolutamente pazzesca ma per la lucidità con cui riesce ad analizzare il mondo di oggi e la sua dipendenza dalle nuove tecnologie e dalla televisione. Dei sette episodi andati finora in onda (tre per le prime due stagioni più un Christmas Special) almeno la metà di questi raccontano in modo feroce e spesso davvero spaventoso la TV di oggi e probabilmente (ma speriamo di no!) quella di domani, soffermandosi in particolare sui reality.
E a quanto pare, se una buona parte della popolazione britannica sembra avere una vera e proprio predilezione per questo tipo di programma, Brooker (che è anche critico e autore di diversi programmi televisivi che spaziano dal quiz all’attualità) non sembra proprio apprezzare i reality, nemmeno i più famosi come il Grande Fratello. Per esempio, nella sua opera del 2008, e quindi precedente a Black Mirror, Dead Set, ci mostra proprio i partecipanti del celebre reality chiusi nella famigerata “casa” e inizialmente inconsapevoli del fatto che nel mondo esterno è esplosa una letale epidemia zombie. Se la miniserie è un horror a tutti gli effetti, è evidente fin dall’inizio (e ancor di più dal bellissimo e significativo finale) che si tratta di una satira vera e propria, e nemmeno troppo sottile. Ma sanguinolenta, ironica e piena d’angoscia.
Prendersi in giro
Come avrete notato, quando la TV si racconta è spesso solita farlo con grande (auto)ironia e anche una buona dose di cattiveria, e proprio a questo proposito come possiamo non citare il comico più cattivo del mondo, Ricky Gervais, e il suo show Extras, che racconta le vicende di Andy Millman, aspirante attore che spesso trova lavoro come extra su set prestigiosi ma che ad un certo punto trova il successo con una (pessima) sitcom scritta di suo pugno e basata su un unico, fastidioso tormentone “Are you having a laugh?”. Oltre alla comicità più unica che rara di Gervais, a caratterizzare questo show è soprattutto la presenza di divi di altissimo profilo (Kate Winslet, Ian McKellen, Ben Stiller, Samuel L. Jackson, Patrick Stewart, Daniel Radcliffe, perfino David Bowie, George Michael e Chris Martin) che interpretano versioni molto negative e grette di loro stessi. Il risultato è deliziosamente spregevole e assolutamente da non perdere.
Non si arriva ai livelli di cattiveria di Ricky (e chi potrebbe mai?), ma anche in Episodes e The Comeback altre due star televisive decidono di mettersi in gioco e fare anche un po’ di sana autocritica: la cosa buffa è che i rispettivi protagonisti Matt LeBlanc e Lisa Kudrow provengono entrambi da Friends ed entrambi sembrano voler esorcizzare l’impossibilità di bissare il successo di una delle sitcom per eccellenza prendendosi in giro e prendendo in giro lo stesso mondo che li ha resi ricchi e famosi.
Se finora abbiamo sguazzato nell’oceano della “meta-televisione”, è bene notare che c’è chi ha fatto la sua fortuna su questi temi ben da prima: parliamo per esempio del capolavoro assoluto Seinfeld che nella quarta stagione inserisce la storyline assolutamente geniale dello “show within a show”, riuscendo così a prendere in giro la NBC (ebbene sì, ancora loro!), gli spettatori e perfino gli stessi autori/attori. Uno di questi autori, il celebre Larry David, lasciato il suo compare Jerry Seinfeld, trasferì le sue idiosincrasie in un nuovo show Curb Your Enthusiasm il cui protagonista è una versione (nemmeno troppo) romanzata di se stesso e delle sue difficoltà come sceneggiatore nel ritrovare ispirazione e successo dopo essere stato uno dei creatori della più importante e amata sitcom di sempre.
I progenitori
Ma niente di tutto questo sarebbe mai esistito senza il comico Garry Shandling, che, prima con It’s Garry Shandling’s Show nel 1986 e poi The Larry Sanders Show, nel 1992, si inventava nel primo caso protagonista nevrotico di una sitcom perfettamente consapevole di essere solo un personaggio televisivo e quindi per questo incline a monologhi diretti al pubblico che spesso finiva col ritrovarsi al centro delle storyline, mentre nel secondo caso era conduttore di un talk show e invitava celebrità di ogni tipo che interpretavano versione auto ironiche ed esagerate di loro stesse. Praticamente tutto quello che fece fu una rivoluzione e metà degli show che abbiamo citato finora partono proprio da qui: non è quindi un caso se agli scorsi Emmy è stato dedicato a Shandling, morto lo scorso marzo, un lungo, toccante e dovuto tributo.
Ma parlando di innovatori non possiamo che chiudere con la meravigliosa Mary Tyler Moore e il suo The Mary Tyler Moore Show del 1970 (ok, almeno in quanto a originalità dei titoli nel frattempo abbiamo fatto passi da giganti), uno degli show più iconici e amati della TV americana in cui una donna single si trasferisce a Minneapolis per un lavoro da segretaria ad una stazione televisiva ma a sorpresa le viene offerto il ruolo di produttrice del programma Six O’Clock News. Vero e proprio modello per Tina Fey e qualsiasi altra donna della TV USA, il personaggio di Mary Richards non si è limitato a cambiare per sempre la televisione americana, ma ha semplicemente cambiato l’America stessa. E l’ha fatto con una serie che raccontava una TV ancora acerba e, sebbene certamente molto lontana dai fasti autoriali e cinematografici di oggi, già meritevole di essere ascoltata, seguita e presa ad esempio. Possiamo dire la stessa cosa oggi?
———
Articolo in collaborazione con Movie Player, scritto e curato da Luca Liguori, redattore di movieplayer.it.
Qui l’articolo originale.
Edel Jungfrau
Ultimi post di Edel Jungfrau (vedi tutti)
- Mini guida ai documentari Netflix (attualità, politica, vita in prigione) - 5 Gennaio 2021
- Kidding: il fragile sorriso della depressione - 4 Febbraio 2020
- The New Pope – episodi 1 e 2: e pur si muove! - 23 Gennaio 2020