Dopo tre anni dall’uscita dell’omonimo film, Justin Simien approda su Netflix con Dear White People per continuare a raccontare la storia dei ragazzi afroamericani della Winchester University.
Quando l’anno scorso scrissi il primo articolo per il blog di Italiansubs, uno dei dibattiti più accesi nel mondo dell’intrattenimento verteva sulla controversa questione delle nomination agli Oscar 2016 dominate da attori bianchi. La protesta venne portata avanti a colpi di hashtag sui social network tanto da spingere l’Academy a rivedere il regolamento delle candidature, in modo da avere una maggiore varietà di rappresentanze nelle varie categorie. Quest’anno la statuetta di miglior film se l’è aggiudicata Moonlight e, a dire di alcuni, è stata la risposta, un po’ ruffiana a quella protesta. Ovviamente il film di Barry Jenkins non è il primo lungometraggio con protagonista un afroamericano a vincere la statuetta: ci aveva pensato 12 Anni Schiavo due anni prima. Contestualmente alla controversia degli #OscarsSoWhite, era apparso un articolo sulle colonne del The Hollywood Reporter in cui si elencavano i ruoli per cui un attore afroamericano era stato insignito del premio Oscar: in maggioranza erano malavitosi, tossicodipendenti, schiavi o servi. Un discorso diverso, invece, possiamo fare per la TV, dove i ruoli sono più trasversali seppur con qualche distinguo sul piano delle storie raccontate e sul modo in cui vengono elaborate. Ed è qui che entra a gamba tesa Dear White People, la serie in 10 episodi di Netflix creata da Justin Simien e rilasciata sulla piattaforma streaming a partire dal 28 aprile.
Si possono raccontare storie con protagonisti afroamericani senza necessariamente ricorrere a stereotipi e senza chiamare in causa la schiavitù o altri stereotipi? Sì, c’è Dear White People perché affronta il discorso del razzismo secondo una prospettiva interna, peculiare, senza ricorrere a forme narrative didascaliche o ad atteggiamenti dottrinali e pedagogici e, anzi, optando per una satira ben costruita per smontare molti stereotipi. Già il fatto che non si parta da protagonisti socialmente disagiati – che tentano la scalata in una società e uscire dal ghetto (penso al volo a The Get Down), oppure la fuga dalla schiavitù (come in Underground) – è un’inversione di rotta. I protagonisti sono tutti studenti che frequentano la prestigiosa, seppur fittizia, Winchester University, un’università inserita all’interno della cosiddetta Ivy League (nella realtà, il titolo che accomuna le più prestigiose università d’America). Ah, quindi hai i soldi e ti preoccupi del colore della pelle? Sì. L’intento di Dear White People non è mettere in evidenza che il razzismo esiste: sarebbe la scoperta dell’acqua calda. Ma sottolineare come i personaggi della storia ne vengono in qualche modo affetti nella propria singolarità. I protagonisti non sono un blocco unico e inscindibile ma una commistione di microcosmi imperfetti che cercano di definire la propria identità. Le varie riunioni che si sussegguono nel corso degli episodi puntano proprio a sottolineare come non basti condividere il colore della pelle per avere un’idea unitaria su un particolare tema. La citazione di James Baldwin all’inzio della serie, con la voce narrante di Giancarlo Esposito, è una dichiarazione d’intenti per Dear White People: “The paradox of education is that as one begins to become conscious one begins to examine the society in which he is being educated” (“Il paradosso dell’educazione è che mentre uno inizia a diventare consapevole, inizia ad esaminare la società in cui vive”).
La domanda al centro di Dear White People è: perché ogni personaggio prende o arriva a prendere una determinata posizione? Samantha (Logan Browing), Troy (Brandon P. Bell), Lionel (DeRon Horton), Coco (Antoinette Robertson), Reggie (Marque Richardson), Joelle (Ashley Blaine Featherson), Gabe (John Patrick Amedori), ciascuno a modo loro inizia a esaminare la propria porzione di mondo a partire dal black-face party e a relazionarla all’interno di un disegno più grande, cercando di capire quale posto effettivamente occupa a livello sociale e iniziare a fare i conti con i compromessi. E questa impostazione ha una triplice funzionalità: allargare l’orizzonte narrativo rispetto al film, concedendo ad ogni personaggio il giusto spazio all’interno del racconto; portare sullo schermo un impianto satirico ben calibrato con continui riferimenti alla cultura pop, alla “satira bianca” e al fenomeno dell’appropriazione culturale (il black-face party nel pilota oppure l’utilizzo della N-word nell’episodio 5, quest’ultimo diretto da Barry Jenkins); accentuare il riferimento a fatti di attualità come il movimento Black Lives Matter.
Ma, forse, l’aspetto principale della serie è che non si preoccupa minimamente di dover tenere conto delle persone bianche. Proprio per il titolo inteso come provocatorio, l’alt-right americana ha interpretato la serie come una forma di razzismo inverso, invitando gli utenti a disdire l’abbonamento a Netflix come forma di boicottaggio. Carezzine sulla testa per voi, per dire come effetivamente il razzismo sia un fatto. Dear White People è un invito a guardare oltre la macchina da presa e se il primo episodio sembra girare un po’ a vuoto, già dal secondo in poi la serie inizia a configurarsi più solidamente sfociando nel climax del quinto episodio che pone le basi per la seconda parte della narrazione. Justin Simien è riuscito molto bene a mettere insieme un puzzle variegato con un prodotto in grado di alleggerire la lettura tra le righe con un impianto satirico-umoristico che non snatura l’intento della serie.
Se pensate che sia l’ennesima serie di Netflix con scopi educativi, penso che vi stiate sbagliando. Se pensate, invece, che questa serie vi riguardi in quanto quell’apparente tono minaccioso del titolo, beh, vi sbagliate altrettanto.
givaz
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