Ancora una volta si è fatto un gran parlare di Gomorra – La serie come di un prodotto infamante e diffamante, come una visione distorta di Napoli e dei napoletani da offrire al resto dell’Italia e del mondo.
Ancora una volta, però, Gomorra fa il boom di ascolti, con percentuali di incremento da far impallidire sia la prima stagione stessa di Gomorra, sia qualsiasi altro tipo di serie TV italiana (se mai ne esistesse una paragonabile per scrittura, regia, temi e fotografia).
E allora? Come la mettiamo? Stiamo diventando tutti sempre più camorristi? Ci stiamo assuefacendo a modelli comportamentali tipicamente criminali e da domani invece di mettere i Tampax o il cellulare in borsa ci mettiamo una bella calibro trentotto? Ma veramente ancora dobbiamo ascoltare storie di questo genere e controbattervi come se fossero anche solamente verosimili?!
Parliamo, piuttosto, di qualità, invece che buttare fango immotivatamente su uno dei pochi prodotti italiani degni di essere discussi.
La seconda stagione di Gomorra ha tenuto botta, questo si può dire con certezza. Fotografia, regia, musiche hanno mantenuto gli stessi elevati standard della prima stagione. Quel che ha ceduto, ogni tanto, è stato l’impianto narrativo in relazione soprattutto alla verosimiglianza, o meglio, alla coerenza interna.
Uno dei grandi pregi di Gomorra è quello di raccontare in forma narrativa e di intrattenimento la verità e nient’altro che la verità. Non c’è spazio per meccanismi di identificazione o simpatia come quelli che si innescano nella visione di film come Il Padrino. Gomorra è vera, è il retroscena di quella punta di iceberg che viene (troppo) frettolosamente riportata dai telegiornali nazionali. Riusciamo finalmente ad assistere a chi e cosa sta dietro alle carneficine per le strade di Napoli. Riusciamo a vedere e comprendere come e perché la camorra non è solo una questione di omicidi e ritorsioni, e non è, soprattutto una questione solo napoletana. I tentacoli di questo mostro sono ovunque e attecchiscono laddove ci sono quattro cose: povertà emotiva, soldi, assenza dello Stato, male.
ATTENZIONE, L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER. NON proseguire se non si è vista l’intera stagione.
Ma qualche allentamento narrativo, in questa macchina della verosimiglianza, c’è stato. Durante i primi due episodi assistiamo a una rocambolesca fuga di Genny e Pietro Savastano a seguito di un attentato alla malavita calabrese che, invero, non era interessata a loro e probabilmente non era nemmeno a conoscenza della loro presenza nel locale in questione. I due, così, scappano e subito dopo rubano un’auto (ma perché non allontanarsi a piedi, visto che nessuno li conosce, e rischiare di essere fermati?), vengono fermati (e certo!), scappano a piedi, a don Pietro viene un infarto (non di quelli di cui nemmeno ti accorgi, ma di quelli paralizzanti), e continua a scappare tratto in salvo dal figlio. I poliziotti a venti centimetri dalle loro calcagna improvvisamente li perdono. Frattanto Genny ruba un’auto ma pensa bene di non rubarla all’italiana, bensì preferisce il sistema americano: compare improvvisamente dal sedile posteriore dell’auto, alle spalle del guidatore che poi verrà ucciso (ma scusa, allora perché non ucciderlo prima?). L’infarto magicamente svanisce durante la notte. Insomma, ecco, c’è qualche sbavatura.
La più grande sbavatura giunge dritta in fronte nell’episodio in cui finalmente Gennaro si confronta con Ciro, cogliendolo di sorpresa (neanche tanto, dopotutto) nella sua stanza d’albergo. Uno di fronte all’altro. Genny con una pistola, Ciro in ginocchio (Ciro: quello che gli ha ammazzato la mamma, gli ha sparato in faccia e gli ha girato tutta Scampia contro). Bene, Genny non gli spara, quasi mosso da un non meglio identificato senso di amicizia-umanità. No, non va. Non mi pare credibile, ecco.
Altra americanata del tutto inutile all’economia narrativa dell’intera serie, sono gli ultimi secondi del finale: “Come lo chiamiamo questo bel bambino?” chiede l’ostetrica a Genny. “Pietro, Pietro Savastano”, risponde lui. Ma no! L’ho trovato davvero fuori luogo, un po’ pacchiano, come fosse discordante e dissonante con lo stile e il tenore dell’intera serie. Se non ci fossero stati quei tre secondi la serie avrebbe funzionato ugualmente, e il finale non avrebbe perso nulla, anzi, del suo climax.
Credo che questo tipo di inserti un po’ all’americana sia dovuto al largo successo di pubblico che ha avuto la prima stagione, altrimenti non me li spiegherei. Ben venga, ad ogni modo, l’audience che ripaga il lavoro di sceneggiatori e ideatori.
A parte queste critiche sul piano narrativo, posso dire che il prodotto finale, complessivamente è buono, davvero molto buono, e ovviamente non in base ad un confronto con i soli prodotti italiani (sarebbe come giocare a calcio senza portiere), ma in riferimento ai prodotti seriali europei e statunitensi.
Gomorra funziona, tiene alta l’attenzione, crea suspense, attesa e voglia famelica di passare all’episodio seguente. Non crea, però (ovviamente e per fortuna), a mio modo di vedere, identificazione, se non minima. Quello che intendo è che è impossibile parteggiare per Ciro che è uno che strozza la moglie e arde i corpi di ragazzine; o per Genny che è un animale da guerra e compie o commissiona omicidi come ordina un panuozzo. Il massimo di identificazione che può scattare è interno alla narrazione, ma non ai modelli comportamentali. Per esempio quando finalmente Genny si divincola dalla sudditanza del padre, o quando Ciro riesce a vendicare l’uccisione della figlia, lì, allora sì, lo spettatore può “tifare” per qualche attimo per quel personaggio, per il suo riscatto narrativo. Ma non per la persona rappresentata dal personaggio. Sembra assurdo doverlo specificare, ma a quanto pare in Italia il livello della critica è su questo piano. Incredibile ma vero.
Il bello di questa serie TV è proprio questo, invece: riesce a portare la cronaca all’attenzione di tutti, fondendola con la finzione narrativa. Mette in luce l’universo di valori dei camorristi e di tutto quel mondo liminare che, versando in degrado ed ignoranza, cade spesso tra le grinfie della camorra, non trovando nessun altro interlocutore.
A tal proposito, trovo interessante una figura minore, quella di Marinella, la nuora di Scianel (che già a scriverlo così, mi vengono i brividi). Marinella è la classica figura di ragazzina terra-terra, senza orientamento, senza un’economia emotiva che, per essersi infatuata del delinquente del rione qualche anno addietro, si ritrova ingioiellata dalla testa fino ai piedi e prigioniera della tanto spietata quanto androgina Scianel. E così si trovano a confronto due figure di femmina: una alla totale mercé di uomo, identificata solo in quanto “moglie di..” e quindi proprietà di… L’altra, invece, che diventa quasi un maschio per poter sopravvivere in un universo fatto dai maschi e per i maschi. Scianel (Cristina Donadio) è praticamente un uomo ma con qualche vezzo da donna; della femminilità, però, ha perso tutto, riducendosi alla ridicola pratica di autoerotismo con l’unico mezzo in grado di starle accanto: un vibratore. Questo è lo spazio della donna in questo mondo fedelmente ritratto da Gomorra: o suppellettile o mascolina. Nient’altro. Patrizia, il corriere di don Pietro (bella interpretazione di Cristiana Dell’Anna) ne è un altro esempio, e ne diventa la donna perché lui “non ce la fa più a stare solo”.
Anche l’amore contorto che Salvatore Conte nutre per la trans è molto interessante. Quel ramo della narrazione mira a svelare l’inconscio e l’intimità del camorrista, che non è mai monoblocco, ma è fatto di venature e stratificazioni varie. L’amore non è mai vissuto con limpidezza, con naturalezza, ma è accompagnato sempre da sentimenti contorti come il senso di colpa, la vigliaccheria, la perversione, l’oscenità.
In un passo de L’Amica Geniale, di Elena Ferrante, che descrive con estrema lucidità l’universo semantico di un rione di Napoli, la scrittrice ci rivela che in dialetto napoletano non si dice mai “io ti amo”; quest’espressione non si usa. Si dice, invece, “ti voglio bene”, ma la parola amore non trova spazio. E questo perché una lingua è sempre espressione, e non solo veicolo, del proprio mondo, ne è la fedele rappresentazione. E nel mondo dei rioni lo spazio per l’amore è corroso dalle botte, dalle vendette, dalle armi, dalle ritorsioni, dai macchinosi raggiri. E tutto questo, poi, per cosa? Per fare una vita da vermi: chi da latitante, a doversi nascondere in una misera stanzuccia, chi tramando costantemente per mantenere la posizione guadagnata o accaparrarne una nuova. Senza tregua, senza pace. Giocano alla guerra, perché la pace nemmeno la contemplano.
Un altro degli infiniti aspetti che vorrei sottolineare è il nesso malato tra mafie e religione. La processione cui partecipa Salvatore Conte è l’esempio della devozione e dell’abnegazione con cui questi soggetti si dedicano alle pratiche religiose, tralasciandone poi, ovviamente, l’applicazione e l’adesione alla vita di tutti i giorni. È come se in questi contesti avvenisse una disgiunzione della pratica religiosa dal suo principio etico, e così rimane in piedi solo l’aspetto ritualistico, del tutto sconnesso dal modus vivendi del camorrista o mafioso che sia. E quell’aspetto ritualistico assume, poi, una valenza scaramantica, quasi fosse un amuleto. Tutto qui. Ci si batte il petto, si fa voto al Santo di turno e poi si torna a uccidere e massacrare. Sicuri che poi tanto c’è Dio che vede e provvede.
I miei complimenti vanno, come sempre, a Roberto Saviano per le sue idee, la sua scrittura sferzante, avvincente e lucida, per la sua tenacia e la forza con cui resiste da una parte alla camorra, e dall’altra a quella parte d’Italia che, da sempre, avversa i propri talenti, temendoli e infamandoli, invece di promuoverli e sostenerli (l’anti-savianesimo trova i suoi precedenti, per dirne una, nel rapporto di parte dell’Italia con Elsa Morante, l’indomani dell’uscita de La Storia. Ma la lista, purtroppo è lunga). Molta parte dell’Italia sprofonda nel conformismo o nel suo apparente contrario, l’ideologia radical chic. In entrambi i casi si avversa una figura come Saviano con frasi come “vabbe’, ma tanto si sa… Che palle… Si è fatto i soldi sulle spalle di Napoli” e così via. Quella parte dell’Italia, a mio modo di vedere, è la parte che non vuole sentire la verità e non vuole conoscere la Storia. E’ un’Italia che si merita il falso racconto di Montalbano e Don Matteo, i reality e i talent show. Oppure è quell’altra Italia ancora, quella convinta che la vera cultura, la vera verità è per pochi, e se arrivi a tanti sei di massa e quindi non sei un vero scrittore o intellettuale. Ecco le due facce della stessa medaglia. Per fortuna, poi mi ricordo, c’è una terza Italia, quella che ama, legge, cerca e comprende senza preconcetti, senza etichette.
In ultimo, ma non per ultimo, i miei complimenti vanno a Sollima, agli interpreti e a tutto lo staff di registi, sceneggiatori e costumisti, che hanno reso possibile la realizzazione di quest’ottimo prodotto. Interpretazioni come quella di Salvatore Esposito (Genny), Marco D’Amore (Ciro), Fortunato Cerlino (Don Pietro), per limitarmi solo ai protagonisti, sono encomiabili perle rare. Bravi, bravi tutti!
Arrivederci alla terza stagione, perché sì, si farà!
A voi i commenti.
Valeria Susini
Lola23
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