Su AVClub un articolo di Ryan McGee si domanda se la narrativizzazione delle serie tv ha fatto più male che bene al genere.
Non sono pochi i commentatori e critici che hanno riconosciuto negli ultimi 10-15 anni un sensibile incremento qualitativo medio nelle serie tv, e le cause sono molteplici, c’entrano i budget di spesa, l’abbattimento della cortina cinema/TV, l’avanzamento delle tecniche di produzione, editing, effetti speciali, c’entra un nuovo modo di concepire la tv e probabilmente anche l’ingresso della rete, la globalizzazione.
Uno degli effetti più importanti è sicuramente la narrativizzazione delle serie, per cui gli episodi tendono sempre di meno ad avere un capo e una coda, e sempre di più ad essere segmenti di una storia più grande. E’ la stessa differenza, se vogliamo, tra una raccolta di racconti e i capitoli di un libro.
I Soprano non è stato nè l’unico nè il più accanito show tv a impiegare questa tecnica, vengono piuttosto individuati come l’anello di congiunzione fra il prima e il dopo, il volto di una tv che non riconosce più se stessa: gli episodi erano sì autonomi, ma potevano essere compresi appieno solo con una visione continuata della serie. I “colleghi di emittente” OZ e The Wire sono probabilmente esempi molto più calzanti di cosa significa estendere una linea narrativa per tutta la stagione e oltre. Questa tecnica è molto più diffusa negli show cable dove le serie sono più slegate agli ascolti e pertanto vengono ordinate in blocco, e dove la ritenzione del pubblico è molto più importante. Il vantaggio principale di adottare una linea narrativa unica è infatti la fidelizzazione dello spettatore, a cui viene concessa la sua dose settimanale alternando bastone e carota, colpi di scena e cliffhanger.
Ma allora, perchè questa cosa è male? McGee argomenta che adottare una visione troppo “lunga” fa perdere di vista l’economia del singolo episodio, privilegiando gli intrecci e trascurando il piacere del singolo episodio, di offrire intrattenimento per una serata e nulla più. La sua tesi è che in pochi possono permettersi di essere i Soprano, ed è ancora più difficile se ti trovi su una emittente broadcast o basic cable.
Da Lost in poi, invece, la tecnica ha un po’ degenerato, al punto che c’era gente (non facciamo nomi) che aveva scritto la trama per 5 stagioni di una serie, dimenticandosi di creare anche dei personaggi che reggessero, per cinque stagioni, complessi e sfaccettati abbastanza da offrire ad ogni puntata un profilo diverso. Oggi, gli show narrativizzati che funzionano sono quelli che si prendono il proprio tempo, raccontando la storia ma prima i personaggi, esattamente come accadeva ai Soprano e come accade oggi con Breaking Bad e Homeland: sono i piccoli scatti che ad ogni puntata il personaggio compie in una direzione o un’altra il senso della puntata, mentre la trama si distende e allunga dando un senso complessivo alla storia. In definitiva, si rovescia ciò che in origine le serie erano, cioè stessi personaggi-storie diverse (alla “Ispettore Derrick“). Tuttavia, anche qui non siamo di fronte a una scienza esatta: show come The Walking Dead o The Killing, ad esempio, partono a razzo e poi esauriscono (narrativamente, e negli ascolti) la loro spinta perchè incapaci di evolvere, e privi di una “spina dorsale procedurale”. Cosa che invece non è accaduta a Game of Thrones o Boardwalk Empire, capaci, anche in virtù di grossi strappi agli equilibri dello show e a stravolgimenti di fronte sulla trama, di rinnovare sè stessi conservando continuità.
McGee si spinge addirittura a sostenere che in show ibridi come Person of Interest, Grimm o gli show USA (Burn Notice, White Collar), solitamente procedurali puri con una o più storie ad assicurare continuità alla stagione, sono danneggiati dal fil rouge che unisce le varie puntate, poichè sposta l’attenzione dal particolare al generale, e la visione del singolo episodio diventa una “rogna” che lo spettatore si deve sorbire per seguire la trama generale, l’ennesimo filler per allungare la minestra.
Per quanto radicale, l’autore ha però ragione su almeno un punto: le serie sono prodotti culturali organici, non film extralarge spezzettati in più episodi. Man mano che il girato si accumula e il cast e la crew cambiano, anche la serie modifica i propri obiettivi, valori, punti d’arrivo e persino di partenza. Tenersi troppo attaccati ad una trama scritta a tavolino significa snaturare, almeno in parte, l’essenza viva della serie e del lavoro delle persone che la realizzano: dimenticando di cogliere le opportunità, imparare dagli errori, crescere davvero.
Fonte: AVClub
SLM
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