Looking è il nuovo dramedy targato HBO che narra la vita di tre amici: Patrick (Jonathan Groff), un video game designer di ventinove anni, Dom (Murray Bartlett), un cameriere che spera di far carriera nella ristorazione e Agustin (Frankie J. Alvarez), un trentunenne aspirante artista che non riesce a fare arte. Per chi non avesse ancora iniziato la serie, vi rimandiamo al nostro aperitivo.
Per chi invece sia già entrato nel magico mondo della caleidoscopica e contraddittoria San Francisco, procediamo con il punto della situazione, arrivati al quinto episodio degli otto previsti per la prima stagione.
La serie è stata creata da Michael Lannan ed è scritta e diretta da Andrew Haigh e, come detto, è incentrata su tre amici accomunati anche dall’essere gay. Ma partiamo subito con una domanda: è davvero importante che siano gay? Un po’ sì, ma anche un po’ no. Perché? Perché ciò che distingue Looking da tutte le serie a tematica gay che l’hanno preceduta è un dettaglio, ma di fondamentale rilievo, e cioè che Looking non parla dell’omosessualità in sé, ma della vita di tre amici omosessuali. In sostanza, assodato che i nostri tre protagonisti sono gay già nei primissimi minuti del pilot, passiamo oltre e veniamo introdotti a una serie di tematiche che riguardano semplicemente la vita quotidiana: il lavoro, la frustrazione, le relazioni di coppia, la famiglia, il vagabondaggio emotivo, la frenesia della vita post-moderna nel sempre più stridente confronto con la necessità di definire con calma la propria intimità e la propria crescita personale.
Ok, inevitabilmente, trattandosi comunque di uno scenario gay, ritroviamo dei fil rouge, dei comuni denominatori lungo la narrazione, come la paura dell’AIDS (decisamente più marcata che nelle narrazioni a sfondo etero), la dialettica tra attivo e passivo, le fiere e le parate tipiche del filone gay. Ma Lannan e Haigh hanno sapientemente calibrato la rilevanza di queste tematiche con la narrazione globale e con gli aspetti decisivi della vita di ciascun protagonista. Se per esempio la parata leather della Folsom Street Fair è sicuramente un must del filone gay, bisogna assolutamente riconoscere che durante il quarto episodio essa ha un ruolo di sfondo, è una sorta di eco che svolge la funzione di mettere a confronto (almeno così io l’ho vista) l’immagine stereotipata che si può avere dei gay con la vita reale che un omosessuale conduce, rappresentata da Patrick che osserva insieme al suo capo la parata da lontano. Successivamente Patrick si getterà per un breve lasso di tempo nella mischia della parata, e questo non ci vuole spingere a pensare “ah, ecco, hai visto? Alla fine sono tutti uguali.” Semplicemente Patrick non si ritrova molto nelle vesti di un esibizionista, ma non per questo snobba i suoi amici che vogliono divertirsi prendendo parte alla parata. Quello che Haigh ha voluto sottolineare, durante un’intervista al Guardian, è che non si può parlare di gay come di una categoria, perché i gay sono persone e, in quanto tali, sono tutte diverse e non necessariamente aderiscono ad etichette preconfezionate alle quali attenersi con comportamenti rigidi e inflessibili. Ed ecco perché, continua Haigh, è anche impossibile che Looking soddisfi tutte le richieste di rappresentatività degli omosessuali. Semplicemente perché non si può. E, oltretutto, perché Looking, ribadisce, non è un trattato sull’omosessualità, ma una storia di vita, così come lo è stato The L Word, che a suo tempo, ci dice Haigh, subì alcune critiche per non aver dedicato spazio alla figura stereotipata (o meno) della lesbica mascolina. Anche in quel caso la serie non voleva essere un compendio su una categoria sociale, ma semplicemente intendeva narrare una storia da una certa prospettiva.
È per questo che la serie non è stata accostata alle precedenti serie a sfondo gay, come Queer As Folk, e piuttosto è stata subito messa a confronto con Sex and The City (per essere incentrata sulla storia di tre amici), e più che altro con Girls, l’ormai famosa serie di Lena Dunham, per mettere in scena la crudezza e l’essenzialità del vivere quotidiano, e per giunta in una metropoli. Ad accomunare le due serie, inoltre, troviamo il tipico filtro della fotografia stile Instagram, la struttura di 30 minuti ed il sarcasmo piuttosto che la comicità. Come in Girls, in Looking troviamo la ricerca (da qui il titolo) di qualcosa di sempre diverso di episodio in episodio, ma rientrante nel quadro generale della definizione di sé. Tanto in Girls quanto in Looking, ognuno dei protagonisti è accomunato dalla ricerca di stabilità, di una definizione professionale, di accettazione sociale, di crescita, e tutti, in fondo, sono quotidianamente alle prese con il tanto banalizzato quanto pur sempre attuale concetto di Amore. Come sostiene lo stesso Jonathan Groff, “una delle cose fighe di questa serie è che nessuno sta vivendo un’esperienza di coming out. Nessuno di loro sta combattendo con la propria identità sessuale. È più una serie sugli uomini tra i 30 e i 40 anni. È una serie con dei personaggi gay, ma le loro questioni sono lavorative, relazionali e interpersonali (…) Si spera sia un segno di come stanno le cose: che la tua sessualità è, sì, gran parte di ciò che sei, ma non definisce chi sei.”
È questo che distingue fortemente Looking da tutte le serie di genere: manca l’eterno conflitto con l’eterosessualità e la necessità di giustificare la propria omosessualità. Se la tematica gay è sempre stata affrontata a partire dal doloroso problema del coming out, della dichiarazione (e accettazione) di essere gay in primis a se stessi, poi alla propria famiglia e infine al resto del mondo, in Looking è quasi del tutto assente. Siamo già al di là dello step iniziale, ci troviamo a porta sfondata, siamo andati oltre. Adesso l’interessante è capire come si vive una vita nel mondo d’oggi, a prescindere da con chi vai a letto. Ho specificato che il coming out è quasi assente ma non del tutto, perché tra i vari temi fondanti della vita, in Patrick troviamo quello dell’accettazione da parte della famiglia, luogo primario e fucina di autostima o, peggio che vada, di insicurezza e fragilità. La madre di Patrick spunta qua e là durante la narrazione e ogni volta salta fuori la velata frustrazione di Patrick di non essere stato accettato e ratificato proprio da chi è più importante di ogni altra persona. Nel quinto episodio si finisce col dichiarare apertamente che, anche se i genitori di Patrick hanno “accettato” la sua omosessualità, non ne vogliono parlare e la madre preferirebbe che almeno si sposasse (a San Francisco il matrimonio gay è legale), in modo da poter ricondurre tutta la “questione” in un’ottica di “normalità”. Viene da chiedersi, allora, in che senso abbiano accettato l’omosessualità del figlio, e se invece forse quel silenzio sia più pesante di qualsiasi rifiuto esplicito. Insomma, anche in questo caso il dolore viene a galla, anche se a tinte tenui, ma pur sempre in riferimento a quel grande inghippo che è il nucleo familiare. Ma l’omosessualità è solo un tema incidentale, perché come abbiamo visto ad esempio in Girls, la famiglia rappresenta ugualmente un elemento di confronto e dolore, pur non in presenza di tematiche di orientamento sessuale.
Quindi, a costo di sembrare ripetitiva, non siamo in presenza della classica serie in cui l’omosessualità viene dipinta a tinte forti, con riferimenti spinti al sesso o all’effemminatezza stereotipata da prima donna. Un altro elemento che accomuna Girls e Looking è la crudezza con cui il sesso viene rappresentato. Le scene di sesso sono verosimili, non smielate ma nemmeno pornografiche, semplicemente schiette, lasciando spazio, talvolta, anche all’imbarazzo, così come avviene nella vita reale.
Haigh ci confida di essere infastidito dalla tendenza a definire Looking “la nuova serie gay di HBO”, perché questo limita l’audience. Ci dice “Fai qualcosa e vuoi che sia universale. Noi gay non siamo così differenti”. Haigh lamenta inoltre il fatto che sia stata spesso posta la domanda circa l’orientamento sessuale degli attori. “Se fosse stato un film su persone eterosessuali nessuno avrebbe chiesto agli attori se fossero gay o etero!”. Ok, per concludere, leviamoci questo dente e sfamiamo la curiosità: Alvarez, l’attore che impersona Agustin è etero, e dichiara, quasi giustificandosi, di essere sposato con una donna e di avere due bambini; Groff e Bartlett, invece, sono entrambi gay. Ma se pensiamo, ad esempio, all’interpretazione di Groff in Boss, ci eravamo mai chiesti, onestamente, se fosse etero?
Ho finito per parlare di omosessualità in una serie valida proprio perché fa dell’omosessualità una sfumatura della quotidianità piuttosto che una problematica di discriminazione. Ma forse, in fondo, essendo italiana, non posso che rimanere colpita dalla naturalezza della trattazione del tema ed essere anche un po’ invidiosa per l’emancipazione che, sicuramente, rende un po’ più facile la vita di tutti. Anche se, si sa, la vita è una battaglia ovunque la si viva.
E voi che ne pensate? Che voto date a questa serie TV? È promettente, scontata, innovativa? Diteci la vostra!
Valeria Susini
Lola23
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