E’ opinione diffusa e comune che i reality show siano nati in Olanda con Grande Fratello, lo show di Endemol che ha dato il via al fenomeno televisivo degli anni 2000.
Tuttavia, questo non è completamente vero. Occorre distinguere fra reality show e unscripted contents. I primi, di matrice più tipicamente “europea”, sono quelle robe morbose fatte di appuntamento serale, fascia quotidiana e, in molti casi, canale dedicato (come per grande fratello) che segue passo passo le avventure dei partecipanti con interesse quasi antropologico. Anche in questi show ci sono degli autori, ma agiscono soprattutto sulle regole, sulle sfide settimanali, e nella scelta dei personaggi. In questa categoria rientrano anche i talent show, anche se non tutti i talent show sono reality veri e propri.
Poi c’è il calderone degli unscripted contents. Ora, il termine significa che i protagonisti non hanno copione. Questo non significa che ciò che fanno sia vero. Semplicemente non devono seguire delle battute, ma gestiscono la situazione “al naturale” e vengono ripresi. Improvvisano (con buona pace degli improvvisatori di professione), ma sempre a partire da un soggetto. Per certi versi, è quanto accade nello show “Buona la Prima”: ai personaggi arriva un input, e devono interpretarlo secondo la propria creatività.
Negli USA ormai gli unscripted la fanno da padroni. Costano poco, impiegano perlopiù gente sconosciuta, semiprofessionisti e mestieranti, a volte debuttanti; raramente necessitano di presentatori, studi o maestranze complesse; possono durare virtualmente all’infinito, perchè spesso si legano alle vicende personali e professionali dei protagonisti; la postproduzione è semplice e poco costosa. Ne esistono di tutti i tipi: da quelli “di gossip” come Jersey Shore e i Kardashian, ai numerosissimi show sulle professioni (alcuni fra l’altro molto interessanti, altri delle boiate pazzesche), agli show sui disagi (“hoarders” è fantastico) fino a quelli polizieschi (in uno lavora Steven Seagal), medicali (i chirurghi plastici vanno per la maggiore) e persino softcore.
Il papà di questo genere qui è un tizio meno noto, ma molto più interessante: si chiama Craig Gilbert e nel 1973 produsse An American Family, una serie di “documentari” che rappresentavano la vita di una famiglia media americana, i Loud, e che riproduceva molte delle problematiche sociali diffuse all’epoca, dalla rivoluzione sessuale al divorzio. Nulla del genere era mai stato trasmesso, negli USA, e tantomeno sul canale educativo per eccellenza, PBS. An American Family fu l’ultimo, e l’unico show prodotto da Craig Gilbert.
Ora HBO sta per lanciare un film, intitolato Cinema Verite, che racconta proprio la realizzazione di questa serie. Il protagonista sarà Gilbert, che oggi ha 85 anni e di recente è andato in overdose da farmaci, ma questo non l’ha dissuaso dal dire che il Gilbert del film “non gli somigghia pe’ niente”. Nel cast sarà James Gandolfini a interpretare Gilbert, ma vi hanno lavorato anche Diane Lane (Pat, la mamma), Tim Robbins sarà Bill (il capofamiglia) e Thomas Dekker, già visto in Terminator: The Sarah Connor Chronicles, sarà Lance, il primogenito, dichiaratamente omosessuale, e scomparso nel 2001.
Oggi An American Family ha un duplice valore: non solo ci riporta a un mondo che, lontano anche solo 40 anni, è già molto diverso da quello attuale; ma costituisce anche un modo estremamente attuale di riflettere sulla commistione fra realtà e finzione, laddove è ormai chiaro che non solo gli spettatori, ma anche gli autori e gli attori hanno smesso di provare a distinguere l’una dall’altra.
SLM
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