Una porta, due poliziotti, una forcina e, tac, entrano dentro casa, piazzano una cimice e da lì montano un caso che porterà i cattivi all’ergastolo e i buoni a una medaglia all’onore. Ecco: prendete tutta questa montagna di banalità stereotipate sulle serie poliziesche americane e mettetela da parte. Perché questo è ciò che non è The Wire.
[Questo articolo NON contiene spoiler]
The Wire, infatti, non è soltanto una serie televisiva, è più che altro una sorta di documentario-reportage sulla vita a Baltimora, con l’inserto di alcuni elementi di finzione narrativa che rendono più dolce “la pillola” e più coinvolgente la storia. Ma la materia prima è la realtà. In casa del sospetto, pertanto, non si entrerà a forza di spallate, bensì a seguito di una meticolosa e infinita ricerca di prove evidenti e inconfutabili che porteranno a un giuramento, che porterà a un’autorizzazione, che porterà, quando va bene, a un mandato. Allora, e solo allora, si potrà sfondare qualche porta o intercettare qualche telefono. E probabilmente sarà troppo tardi.
Se si volesse tentare una descrizione sintetica si potrebbe dire che The Wire è una serie che narra le vicende di un team di poliziotti che cerca di arrestare diverse bande di criminali e omicidi incalliti. Ma così facendo, onestamente, non si renderebbe giustizia a quella che da molti sociologi e critici televisivi è stata considerata la serie televisiva migliore di tutti i tempi. Ebbene sì, anche se non è mai diventata una serie di massa o con ascolti da record, posso dire con assoluta certezza che è un capolavoro. Che poi possa piacere o meno, è questione di gusti. Si astenga dal vederla chi cerca azione, suspense, colpi di scena o misteri. Oggetto della serie, infatti, è la mera quotidianità di Baltimora con il lento tirare a campare dei suoi abitanti fatto, spesso, di niente. Di frequente non accade letteralmente nulla per interi episodi.
PREMESSE
Baltimora è la più grande città dello Stato del Maryland, conta 620.961 abitanti e raggiunge i 2,6 milioni nella sua area metropolitana estesa; secondo il censimento del 2010, il 29,6% della popolazione è bianca e il 63,7% è afroamericana. Nasce come città portuale e diventa un importantissimo polo industriale per tutto il nord-est statunitense. Il lento processo di deindustrializzazione porta Baltimora a una crisi definitiva negli anni ’60 con una perdita di migliaia di posti di lavoro. Nonostante ciò, fino ad oggi Baltimora continua a conservare un ruolo importante dal punto di vista industriale e commerciale. Il suo rilancio si è basato soprattutto sull’aspetto turistico e su quello economico-finanziario. La riqualificazione ha puntato principalmente all’area centrale vicina al porto. Tutto ciò, però, ha prodotto delle immense disuguaglianze, eccellentemente narrate dalla serie TV, in quanto alla riqualificazione dei quartieri più abbienti e da “vetrina” ha fatto da contraltare il totale abbandono delle zone ad alta densità abitativa e con bassi redditi pro-capite ed elevato tasso di criminalità, ossia le così dette inner cities. Quest’ultime sono zone tipiche delle grandi metropoli povere a prevalenza afroamericana e ispanica. Soprattutto nel corso degli anni ’80 le inner cities sono state devastate dall’azione congiunta del crimine organizzato, delle droghe e della conseguente violenza di strada, dal disastro abitativo e dall’abbandono da parte delle istituzioni.
[Fonte: “Way Down in the Hole: La diseguaglianza urbana sistemica e The Wire” – Anmol Chaddha e William Julius Wilson]
BAL’MORE – IL GIRONE DI BUROCRATI E NEGLETTI
Burocrazia, criminalità, corruzione, inefficienza, disuguaglianza e politica sono gli argomenti intorno a cui ruota tutta la serie. Lo scopo della serie, a detta di uno dei due creatori, non è quello di narrare le vicende di un personaggio specifico, bensì quello di raccontare la città di Baltimora così com’è.
Il realismo di The Wire è tale che si è parlato di rappresentazione della geografia sociale (e non solo) di una città attraverso la finzione. E tale realismo si deve senza dubbio ai suoi creatori: David Simon, giornalista di cronaca nera che ha lavorato anche presso il Baltimore Sun (giornale su cui è incentrata l’intera quinta stagione), ed Ed Burns, ex detective della omicidi e della sezione narcotici del dipartimento di polizia di Baltimora e poi insegnante nei quartieri difficili della città (la sua figura è richiamata nella serie dal personaggio di Prezbelusky).
L’intera serie si svolge su un unico arco narrativo orizzontale e affronta le “due facce della medaglia” di Baltimora e della lotta alla criminalità: spacciatori e poliziotti. Attenzione, però, perché questa contrapposizione non equivale alla logica buoni contro cattivi, e non sarà mai così netta. Poliziotti e criminali, infatti, provengono spesso dalla stessa realtà scolastica, dagli stessi quartieri, parlano la stessa lingua, solo che a un certo punto della loro vita alcuni decidono di indossare una divisa, altri di impugnare una pistola con il numero di serie limato. Ma le loro origini sono le medesime: la strada. The Wire è un compendio sulle tipologie di esseri umani, dei loro vizi e delle storture dei sistemi vitali che essi stessi pongono in essere.
Quello che impara lo spettatore di The Wire è che non esistono i buoni e non esistono i cattivi: esistono solo le persone e le scelte che hanno fatto durante la propria vita o che gli sono state imposte. Non è possibile affezionarsi del tutto a un personaggio, perché a un certo punto quello ti deluderà commettendo una scorrettezza, un’infamia o portando a galla qualche scheletro del passato.
Le cinque stagioni della serie hanno l’intento, perfettamente riuscito, di inquadrare tutti gli aspetti della vita di una grande metropoli. Il fil rouge primario, se proprio bisogna trovarne uno, è la sfinente e labirintica burocrazia da cui devono sempre passare i poliziotti per fare una mossa qualsiasi. Il titolo della serie fa riferimento, infatti, alle intercettazioni di cui faticosamente tentano di avvalersi i poliziotti per incastrare i criminali.
La prima stagione si incentra su una piccola e mal digerita unità speciale di poliziotti sottovalutati impegnata nella caccia di uno spacciatore di cui si sconoscono perfino i connotati, e di tutta la sua organizzazione. Spaccio, case popolari, indigenza, lassismo di buona parte dei poliziotti, rigide e insensate catene di comando e una politica contorta la fanno da padrone. La seconda stagione è incentrata sul porto, luogo simbolo della città, sulla difficile vita dei sindacati degli scaricatori portuali, sulle comunità di immigrati (soprattutto polacchi), e sul grande protagonista di ogni grande città portuale che si rispetti: il traffico di merci illecite. I danni che la crisi industriale ha inflitto a Baltimora escono tutti fuori proprio in questa stagione. La terza stagione fa luce sull’intreccio tra speculazione edilizia, criminalità e politica. Emergeranno, poi, tutte le tematiche relative all’impotenza di quella parte ottimista delle istituzioni amministrative e di ordine pubblico impossibilitata in qualunque tipo di rivoluzione del sistema sociale e dello status quo. Si delinea, inoltre, la divisione tra due tipologie di criminalità, quella di strada e quella di palazzo. La quarta stagione sembra volerci spiegare il perché e l’origine di tutto quanto visto fin qui, e così ci porta a scuola, creando ritratti forse tra i più belli e toccanti. La quinta stagione chiude il cerchio e ci porta nella redazione del principale giornale di Baltimora, illustrandoci le storture del sistema mediatico e il suo tradimento della missione originaria, ossia il racconto della verità e della realtà.
Sullo sfondo di queste vicende si stagliano sempre i tre poli: amministrazione politica, istituzioni (scuola, polizia) e criminali. E certamente non rappresentano mai dei settori chiusi e a sé stanti, bensì dei vasi comunicanti, anche quando non dovrebbero.
Altro tema fondante di The Wire è l’impotenza, strettamente connessa alla burocrazia. Illusione di potercela fare, prima, e amarezza nel prendere atto dell’impotenza più assoluta in ogni ambito, poi. I poliziotti sono mere pedine nei calcoli di statistiche e obiettivi dei dipartimenti; a loro volta i poliziotti usano come pedine i criminali, arrestandoli e rimettendoli in libertà poco dopo, senza mai poter risolvere i problemi alla radice. Pedine sono anche i docenti e gli scolari: se i poliziotti rispondono alle statistiche di dipartimento e ai calcoli elettorali dei sindaci di turno, gli insegnanti rispondono alle richieste ministeriali circa i risultati scolastici necessari per ottenere i finanziamenti. Falsificano gli uni, falsificano gli altri. E in tutto questo cittadini e alunni sono solo numeri. Se sei onesto, idealista o anche solo volenteroso nel lavoro, non vai avanti ma, anzi, vieni retrocesso. La missione è sopravvivere, non perdere il posto. Niente di più. Lo sa il sindaco, lo sa il preside, lo sa il commissario di polizia, lo sa il tenente, lo sa il vigile, lo sa lo spacciatore e lo sa anche il bambino delle elementari. O sei nel sistema o non ci sei, e se non ci sei bene che vada finisci su una barca, male che vada finisci ammazzato.
Non saprei scegliere una stagione preferita, perché ogni stagione è concatenata all’altra e la motiva, ma forse la quarta, quella incentrata prevalentemente sulla scuola, mi scuote nel profondo in modo particolare. In quella stagione diviene chiaro come sia lì, alle origini, già a scuola, che si spengono i sogni e si tocca con mano la realtà: non se ne esce. E questa impotenza beffarda trasuda da ogni episodio. Altro esempio è l’immenso dissesto finanziario della città di Baltimora, frutto del lento e imperterrito approfittarsi dei vari amministratori del denaro pubblico. Quel buco non potrà che allargarsi, risanarlo risulta impossibile (e questo vale per tutte le nostre città). Un buco di bilancio di miliardi non si risana: o si argina o si affossa, ma il miglioramento è impossibile e la serie ci spiega perché.
Bal’more, come la chiamano i suoi cittadini nel loro slang, è la città delle sabbie mobili, è la città dei dannati. Colpevole è il sistema tutto, certo, ma è impossibile non provare un odio tenace verso una politica affarista, arrivista e criminale.
Chi sono i criminali in The Wire? Cosa bisogna fare, ed essere disposti a fare, per poter davvero lavorare ed essere nel giusto? L’ultima stagione porta alle estreme conseguenze le prime quattro; è come se Burns e Simon volessero mostrarci come l’unico modo per riportare ordine e disciplina sia sovvertire proprio l’ordine e infrangere la disciplina con i loro insulsi limiti. Il paradosso: ecco l’altro tema della serie. Una sorta di Rosso Malpelo: ciò che è giusto è sbagliato, ciò che è sbagliato è giusto. Il poliziotto caparbio è un problema per i superiori; l’insegnante che voglia emendare i propri studenti è uno stupido idealista e anche lui una minaccia per il Ministero; il giornalista capace e amante della verità è d’intralcio, non serve e non farà mai strada; lo studente capace e sensibile soccombe alle spietate regole della strada; il ragazzo intelligente e capace viene promosso a grado di luogotenente per lo spaccio agli angoli delle strade. Uno su mille ce la fa. Il resto perisce tra burocrazia, impotenza e paradossi. The Wire ci mette di fronte a un muro impenetrabile.
PERSONAGGI
I cast è composto da attori e da ragazzi di strada, e questo suo tratto distintivo fa la differenza, eccome. The Wire non è soltanto realistico, è per buona parte reale. La finzione serve come legante affettivo tra spettatore e personaggi, per dare vita ad abitudini e tratti distintivi. Un esempio è l’espressione ricorrente di McNulty “What the fuck did I do?!”, oppure “Sheeeeeet” di Clay Davis. La serie è corale, i protagonisti sono tantissimi e su nessuno viene indirizzata una preferenza da parte degli autori. In certe stagioni i principali protagonisti della stagione precedente vengono quasi del tutto tralasciati per dare vita ad altre realtà. È impossibile però non fare una carrellata di encomi alle interpretazioni di certi personaggi chiave: il paziente e professionale detective Freeman, l’amabile Bunk, il caparbio e casinista McNulty, l’irresoluto Herc, il paziente Carver, la cinica Kima, il comprensivo e indefesso Daniels, il filosofico e beffardo Omar, l’incasinato e fedele Bodie, il pratico ma idealista Maggiore Colvin, il doppio Rawls, la scrupolosa Rhonda, il colto Stringer Bell, l’animalesco Avon, lo scrupoloso e sfortunato Pryzbylewski (lo so, è impronunciabile), l’irriducibile Frank Sobotka, il tenero Duquan, il sensibile Namond, l’insalvabile Randy, il duro Michael, il magistrale Bubble. E potrei continuare all’infinito.
Italo Calvino, in Lezioni Americane diceva: “Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono avvenimenti che rimano tra loro.”. Beh, The Wire è una lunga e dettagliata narrazione disseminata di rime che richiamano punti lontani del discorso, elementi apparentemente tralasciati, ricordi abbandonati. E così queste rime creano una memoria narrativa e una memoria dello spettatore che con piacere noterà quei piccoli dettagli e li inserirà in una trama rizomatica e orizzontale al temo stesso. Una delle tante rime si trova già nella affiche pubblicitaria della serie composta da due immagini, in una si vedono McNulty e Greggs seduti in auto con il finestrino semi abbassato su cui si riflettono i volti di Stringer Bell e Avon Barksdale, nell’altra, come allo specchio, troviamo l’altra prospettiva con Stringer Bell ed Avon seduti e i riflessi di Greggs e McNulty sul finestrino. Come a chiudere, sin dall’inizio, il cerchio sull’insolubile opposizione di buoni e cattivi.
Che ne pensate? Lo avete visto, amato, odiato? Per chi, invece, volesse iniziare questa avventura, qui trovate i sottotitoli dell’intera serie e qui l’avanzamento della traduzione dell’ultimo episodio.
Valeria Susini
Lola23
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