Il 2016 per me è stato l’anno delle serie a sfondo psicologico.
D’accordo, lo ammetto, da sempre tendo a trovare la riflessione psicologica nelle serie, ma se mi guardo indietro e analizzo la mia valigia seriale dell’anno appena passato, mi accorgo che non ci sono le serie che ho soprannominato “a tempo perso”, e invece svettano unicamente quei prodotti in cui trovo qualcosa di stratificato, enigmatico, tortuoso, contraddittorio ma sempre legato all’animo umano e alle sue vicende.
Sdraiamoci sul lettino, dunque.
10. Fleabag
Non amo le comedy, ma Fleabag la definirei una dark comedy se non altro perché ci porta a sorridere su temi profondamente seri e desolanti come la solitudine, l’abbandono familiare, l’analfabetismo emotivo, l’incomprensione, l’incomunicabilità, l’oblio identitario, il consumismo sessuale, l’insuccesso professionale, la crisi economica e l’assenza di prospettive. Tutto questo lo ritroviamo in sei episodi di trenta minuti ognuno, in cui la protagonista con sarcasmo sferzante guarda in camera e riserva unicamente allo spettatore la verità dei suoi pensieri celata dalla noncuranza delle sue azioni. Anche qui c’è una metropoli, Londra, che fa da sfondo e che esaspera le disfunzioni interpersonali e personali. Sarà un caso che i peggiori disastri, intimi, familiari o sociali, avvengano dove la solitudine dilaga? Che questa solitudine, poi, sia quella dell’incomunicabilità e dell’anonimato delle metropoli o quella dell’isolamento e del conservatorismo delle piccole realtà di provincia, sembra che il risultato sia sempre il medesimo: il malessere tanto dell’uomo quanto della realtà in cui vive.
9. The Missing
Suspense, tortuosità mentali, ansia. Bellissima serie e grandi interpretazioni. Anche qui siamo di fronte alla devianza, agli oscuri meandri della malvagità umana che a quanto pare non sempre è curabile e che merita una sola cosa: la punizione definitiva. Il mistero protratto fino alla fine ha il merito di indagare di volta in volta su ogni personaggio mettendo in evidenza, anche qui, come nessun individuo possa mai considerarsi del tutto esente da qualsivoglia vizio e peccato. L’essere umano è viziato dalla nascita, si potrebbe dire macchiato da un peccato originale che ne fa un essere dal percorso travagliato, sempre sull’orlo dell’errore e, a volte, dell’orrore. Siamo la specie più incoerente e pericolosa proprio perché all’istinto uniamo una lucida determinazione che può sfociare tanto nel bene quanto nel male. The Missing è una serie piena di ossessioni, dall’indomito perverso all’inarrestabile detective, dalla madre che non si arrende alla figlia che resiste. Bella e ben fatta.
8. Orange is the New Black
La quarta stagione di Orange is the New Black vendica a gran voce lo scarso tenore della precedente e alza di gran lunga il valore della narrazione. Lo sguardo si alterna tra introspezione psicologica dei personaggi e analisi della società dentro e fuori dalle sbarre. E il ritratto che ne esce è disarmante. Se degli Stati Uniti si ha una visione edulcorata, sarebbe il caso di soffermarsi su quelle narrazioni che gettano luce sugli angoli meno patinati e pubblicizzati degli USA, come fanno ad esempio, con approcci e risultati totalmente diversi, Treme, The Wire e, per la situazione delle carceri, Orange is the New Black. Nelle carceri americane si ricreano in piccolo tutti gli squilibri esistenti nella società americana, in primis la questione razziale men che mai risolta. Neri e bianchi, ispanici e bianchi, reietti e privilegiati. E poi la questione del numero, della massificazione, della persona ridotta a ingranaggio di una catena di montaggio, niente di più. Eppure ognuna di loro ha una storia frutto di generazioni, di altri passati, di momenti, di alti e di bassi. Ogni persona è uno spartito cosparso di note che, anche quando possono sembrare sparse a casaccio, se lette con l’occhio giusto possono dar voce a una nuova melodia. Ma niente di tutto questo riesce a emergere alla vista degli attori sociali coinvolti in questo dramma, siano essi carcerati o poliziotti, sommersi da un’unica necessità: la sopravvivenza. Come sempre confermo il mio disinteresse per la storia di Piper (Taylor Schilling) ormai ridottasi a mero espediente narrativo che, tuttavia, mantiene il proprio scopo se non altro per far emergere le meravigliose vicende di tutti gli altri protagonisti.
7. The Night Of
The Night Of racconta la storia di un’ingiusta carcerazione che imprime una svolta imprevista alla vita di un normale studente di origini pakistane ma cittadino newyorchese. È una sorta di dramma degli equivoci, una specie di sliding doors disseminato di scelte sbagliate, che prende la vita di un ragazzo, la sconquassa e la cambia irrimediabilmente. Ingenuità, equivoci e una farraginosa macchina burocratica hanno la capacità di deviare il destino di cittadini che, invece, proprio dallo Stato dovrebbero essere tutelati, verrebbe almeno da pensare, proprio in quell’America patria e garante della libertà. E invece no. Per alcuni tratti la narrazione dei personaggi e delle falle amministrative, così come il rassegnato sarcasmo, ricordano l’analisi compiuta in The Wire su Baltimora. In The Night Of il centro della serie è la mutazione del protagonista che entra in carcere come un semplice ragazzo e ne esce trasformato in un drogato smaliziato, gravato da una coltre di sfiducia e apatia. Altra figura interessantissima, pure essa soggetta a trasformazioni, è quella dell’avvocato del ragazzo, interpretato dal grandissimo John Turturro, che da legale d’ufficio schiacciato da un sistema anonimo e disinteressato alla persona, si trasforma in un avvocato umano ed empatico in grado di risolvere il più assurdo dei casi. Bellissima miniserie, suspense assicurata e immancabile riflessione finale.
6. The Affair
Con la fine della seconda stagione mi chiedevo cosa ci fosse ancora da raccontare. E invece c’era eccome. Con la terza stagione, The Affair ha esordito continuando a scavare nelle menti e negli animi dei protagonisti, dimostrando come i cortocircuiti emotivi dell’essere umano siano inesauribili e meravigliosi. Come sempre non è facile parteggiare per un qualsiasi personaggio in questa serie. Non esiste la persona buona e quella cattiva. Certo, Noah Solloway (Dominic West) è proprio quello che si dice una faccia da schiaffi e, per quanto mi riguarda, è l’uomo che proprio non potrei mai desiderare. Ebbene sì, le mie preferite sono Allison (Ruth Wilson) e Hellen (Maura Tierney), due volti della femminilità e della maternità stratificati e sfaccettati, spiazzanti ma veri e crudi. Lo sfondo su cui si stagliano tutti i ritratti psicologici dei protagonisti è l’atmosfera da thriller che deriva dal primo grande mistero che ha connaturato le due precedenti stagioni. Questo sapiente mix tra analisi dei personaggi e thriller tiene alta la suspense e porta a divorare ogni singolo episodio mentre ci si contorce nel malessere empatico per le vite deragliate dei protagonisti. Com’è possibile perdere un figlio e continuare a vivere e rifarsi una vita? Cosa vuol dire amare e condividere la sorte con il proprio compagno? Che volto ha la sofferenza, e quale la fedeltà? Come ci si ritrova dopo essere sprofondati nell’angoscia, nella perdizione, nell’abbandono o nel lutto? Queste sono le domande esistenziali che The Affair ritrae in una sequenza di immagini e storie scandite alla perfezione.
5. Girls
Anche nel 2016, per la quinta volta, Girls offre uno spaccato di crescita ed evoluzione cui non si può non dedicare un encomio. Hannah Horvath (Lena Dunham) sta crescendo e sembra trovare un punto di equilibrio tra l’indifferenza e l’inseguimento della propria realizzazione, tra i vincoli sociali e la ricerca disperata di una libertà che non esiste mai intonsa e integra di per sé, ma è sempre contrattata. Ho già parlato a lungo di questa ottima quinta stagione in un post dedicato. Vorrei ribadire qui come sia preziosa e inestimabile questa serie e come erroneamente spesso sia inserita tra le comedy. In Girls si piange moltissimo e si riflette, ma soprattutto si prova paura e timore: per il futuro e per il presente, così ben rappresentati entrambi dal palcoscenico narrativo di New York, la città dell’eterno presente per antonomasia e, al contempo, del futuro scintillante, o almeno promesso tale. Le incoerenze delle quattro protagoniste di Girls sono quelle della società postmoderna di oggi che pone gli individui, soprattutto i giovani, davanti a richieste contraddittorie e inesaudibili, di fronte a sfide che chiedono di consumare vite e tempo come se ne avessimo altri a disposizione. Sono le incoerenze e i paradossi a cui, sempre in misura maggiore rispetto agli uomini, sono sottoposte le donne che per natura sintetizzano la molteplicità dei ruoli, in una realtà dove il tempo sembra ormai del tutto liquefatto, sfuggendoci tra le dita. E se c’è qualcuno che dice che Hannah Horvath è odiosa, io ribatto che Hanna Horvath è deliziosa perché rappresenta la bellezza e la forza dell’imperfezione e della fragilità in un mondo che spaccia per perfezione la massificazione consumistica e l’appiattimento identitario. Grandissima, Lena Dunham.
4. The Fall
Il tempo che scorre lentamente e il malessere che cresce sempre più. The Fall è la discesa inesorabile negli inferi della mente di un serial killer sessualmente deviato. E mentre la narrazione incede, andando sempre più a fondo, lo spettatore di pari passo procede in questa tundra emotiva, un mondo spettrale abitato dalla follia e da cortocircuiti d’identità. Di questa serie TV è affascinante l’inevitabile identificazione tra antagonista, protagonista e spettatore. È una triangolazione che risucchia e specchia. Durante tutta la visione ci si confronta con la crudezza della devianza umana, verso la quale, però, si stabilisce un doppio legame fatto di incredulità e consapevolezza, quella della doppia natura umana e, quindi, della verosimiglianza di ciò che stiamo guardando. Nonostante si provi un terribile odio per il serial killer e la sua doppia vita, il suo lato umano inducono all’empatia, probabilmente corroborata dal bell’aspetto del protagonista, Jamie Dornan, che certamente aiuta. L’analisi, qui, è sul limite, sull’impossibilità di dire “no, quello non è umano”, perché invece proprio la morbosità, l’ossessione, il sadismo, la sindrome dell’abbandono, la malvagità, il desiderio di sovversione dell’ordine prestabilito sono tematiche interamente umane e terrene, non a caso narrate dai più grandi conoscitori dell’animo umano come Dostoevskij, Kafka e Hesse.
3. Black Mirror
Lo specchio nero della coscienza. La tecnologia come specchietto per le allodole: ciò che non va non sono i media, è l’uomo. Per dirla con le parole di McLuhan, che ricorre al mito di Narciso per spiegare il rapporto dell’uomo con le proprie estensioni mediatiche:”Il senso di questo mito è che gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di cui sono fatti […] Il giovane Narciso scambiò la propria immagine riflessa nell’acqua per un’altra persona e quest’estensione speculare di se stesso attutì le sue percezioni fino a fare di lui il servomeccanismo della propria immagine estesa. Narciso era intorpidito. Si era conformato all’estensione di stesso divenendo così un circuito chiuso”. Black Mirror potrebbe essere sbrigativamente definita come una serie distopica, ma non lo è affatto, anzi è realistica. La terza stagione mescola episodi che ritraggono tecnologie non ancora esistenti con altri che narrano le derive sociali di tecnologie del tutto attuali e iper diffuse. Ma il focus della narrazione è sempre l’effetto corroborante delle peggiori tendenze umane esercitato dalle tecnologie che, però, hanno il solo “merito” di riportare tutto a galla ed esaltarlo alla massima potenza. Ma, ripeto, quello tecnologico è uno scenario, un palcoscenico, un contesto, non il testo. Il testo è l’uomo con tutte le sue più viscerali fobie, ossessioni, perversioni e tendenze demoniache. E se è vero che il medium è il messaggio, in questo caso dobbiamo essere consapevoli che il medium non è la tecnologia, ma l’uomo che in essa e con essa si fonde, facendone il proprio servomeccanismo. Il pedofilo è aiutato dalla nuove tecnologie ma non è creato da esse. L’odio e la folle ricerca del capro espiatorio non sono creati dai social network o dal web, ma vi si diffondono e prendono rapidamente piede grazie all’iper accelerazione dell’età elettrica, niente di più. Il miracolo narrativo che ha compiuto Charlie Brooker è l’aver saputo fondere perfettamente la tematica psico-sociale con l’espediente narrativo, dando luogo a una delle più profonde riflessioni seriali sul congenito malessere che affligge l’essere umano e la sua convivenza con il prossimo.
2. Rectify
Il teatro dell’assurdo e l’abuso dell’anima, così definirei Rectify, serie che narra le vicende di Daniel Holden (Aden Young) incarcerato ingiustamente nel braccio nella morte per diciannove anni e poi rilasciato grazie all’instancabile lavoro del suo avvocato e di sua sorella. Pur essendoci un intreccio narrativo incentrato sulla storia che porta a scoprire i veri autori del delitto per cui invece è stato condannato Daniel, non è questo il centro della serie, ma ne è solo lo sfondo. Ciò che è affascinante e doloroso è il ritratto di un’anima disfatta, frantumata, scompaginata e abusata, quella del protagonista. Quello di Daniel è un ritorno alla vita che, tuttavia, è impossibilitato in nuce, impotente perché memore di tracce incancellabili che sembrano minacciare qualsiasi aspirazione al futuro. Interessantissima la relazione tra scarcerato e società: quest’ultima, infatti, si trova impreparata ad accettare e rivalutare alla luce dei nuovi fatti un individuo a cui era stato dato il determinante ruolo del nemico, del capro espiatorio. Un ruolo così vitale per una società che aspira al quieto vivere e che, proprio per questo, ha bisogno di vomitare tutti i propri demoni su una figura simbolo, ricettacolo di ogni deprecabile sentimento. La famiglia in questo caso svolge il classico e difficile ruolo di filtro e intermediazione, trovandosi a dover soppesare ed equilibrare, ma soprattutto a fornire quella protezione che le istituzioni rifiutano a Daniel. Lo stesso equilibrio familiare vacilla a lungo cercando di reggere alla nuova scossa di assestamento successiva alla scarcerazione del figlio innocente. È come se il carcere, lungo i diciannove anni di detenzione, fosse stato un non luogo in cui neutralizzare i fantasmi sociali e quelli familiari, ognuno con le sue ragioni e con i suoi torti. Perché, d’altronde, senza un parziale oblio, una famiglia non può riuscire ad andare avanti. E in effetti è proprio così che in parte è stato: una vita sospesa e deviata da quell’avvenimento ingiusto iniziale. Ma in quel non luogo, per primo, ci ha vissuto concretamente Daniel, giorno dopo giorno, nel bianco accecante di una stanza isolata illuminata solo da neon e attraversata dalle voci nomadi degli altri detenuti del braccio della morte. Daniel ha dovuto annullare l’esistenza del reale per poter sopravvivere in questo limbo ossessivo e straziante; ha dovuto negare ontologicamente la possibilità di una vita diversa per non perdere totalmente il senno e accettare come unica possibile alternativa la non-vita del braccio della morte, dove l’attesa della condanna capitale è il prezzo dell’ossigeno che si continua miracolosamente a respirare. La vita che verrà dopo esser stato scagionato sarà una ricomposizione di senso, cercando di afferrare lembi di senno e trarne una nuova trama. Un futuro che non neghi il presente ma che faccia della rassegnazione una nuova debole forza.
1. Transparent
Beh, se non è questa una lunga, divertente, malinconica, deprimente, tortuosa e contraddittoria seduta terapeutica, cosa dovrebbe esserlo? Gli Pfeffermann ricordano a tratti i Tenenbaum, ossia una famiglia incasinatissima, i cui problemi nascono e sono corroborati proprio dalla famiglia, e nonostante ciò restano tutti insieme, avviluppati da legami morbosi ma, evidentemente, irrinunciabili, vitali. Una non-vita potrebbe definirsi quella di tutti i componenti della famiglia Pfefferman, un tortuoso avvitarsi su se stessi, sprofondando nelle proprie sabbie mobili narcisistiche non potendo fare a meno, tuttavia, degli spettatori famigliari che devono sadicamente assistere a questi monologhi di fallimento senza poter intervenire mai. La problematica sessuale è il detonatore di tutti i malesseri che piombano a cascata dal padre ai figli e alla moglie. Il padre transessuale ha vissuto una vita di finzione e frustrazione, credendo di recitare perfettamente un ruolo e che, alla luce dei fatti, ha invece sempre lasciato trasparire il malessere che lo turbava e che così si è diffuso all’intero nucleo familiare, assumendo poi diverse manifestazioni, ma ottenendo in tutti il medesimo risultato: l’infelicità relazionale. L’episodio di chiusura della terza stagione è straordinario, mette a fuoco la figura della moglie e della madre di famiglia sempre lasciata in un angolo dai figli e dal marito che mai sono riusciti a spogliarsi delle proprie armature egotistiche per cercare anche solo di interrogarsi sulle condizioni di una donna che, dopo decenni di matrimonio, vede sgretolarsi il suo futuro insieme a tutto il passato evidentemente posticcio. Ironic di Alanis Morrisette chiude perfettamente una stagione sublime. Encomio a tutti, ma proprio tutti, gli interpreti.
Buon 2017 e mi raccomando, cerchiamo tutti comprendere noi stessi e l’Altro!
Valeria Susini
Lola23
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