Classifiche

ItaSA Best of 2014: la Top 10 di Lola23

Queste classifiche sono fatte per regalarvi un pezzo di noi blogger, per darvi modo, attraverso 10 numeri, di gettare un occhio al nostro modo di essere attraverso i nostri gusti. In bocca al lupo, perché spesso non c’è coerenza, e una serie non esclude l’altra. Ma se posso confidarvi una cosa personale, vi dico che questa classifica mi è costata riflessioni, ripensamenti, esami di coscienza, appelli alla ragione, ribellioni dell’emotività e molto molto altro. Sin da piccola per me la scelta è sempre stata un travaglio, una lotta tra la vita che va avanti e il lutto per ciò che rimaneva fuori. Mai me ne son fatta una ragione. Perciò, pensate a che fatica mi è costata questa top 10, e pensate a quanto vi voglio bene. La mia prima scrematura mi aveva portato a 16 serie, poi a 13 e poi alle superstiti 10.

 

10. Fargo
Fargo series coverPremio al sarcasmo e al grottesco. La mano dei fratelli Coen si nota, eccome. Fotografia favolosa, dialoghi surreali, un giallo con l’omicida già conosciuto e lo spettatore che tifa perché la faccia franca e si liberi di tutti i fardelli di una vita assurda e un mondo opprimente e allucinante. E se al contempo tifi pure per la poliziotta sulle sue tracce? Eccolo, il bello. Il punto cruciale è la doppiezza caratteriale ed emotiva del protagonista: Lester Nygaard, impersonato dall’egregio Martin Freeman. Solo la sua mimica vale tutta la serie. Lester è un personaggio modesto e mediocre che sembra uscito dalle metamorfosi di Kafka. Sottomesso, ridicolo, gretto. Avete presente quei notiziari all’indomani di una strage, in cui vengono intervistati i vicini dell’indiziato numero uno? “Ma era una persona così gentile, un amore!”, “Un vicino esemplare!”, “Un uomo di famiglia”. Ecco: guardatevi Fargo. Bene e male, anche qui, si confondono, o meglio, si spogliano delle loro classiche connotazioni morali. Billy Bob Thornton, un altro mostro di attore, freddo e sarcastico. E un encomio immenso va anche Allison Tolman. In Fargo ci si trova di fronte alla rovinosa caduta di tutti i nostri (anti) eroi, e stranamente mi sono sorpresa a godere sadicamente della loro disfatta. Sono pazza?

 

9. Utopia
Utopia-season-2-2014Premio per il mix tra surrealismo e verosimiglianza. Proprio così, perché pur essendo prettamente fumettistica, ironica e paradossale, Utopia trae spunto da una teoria cospirazionista che poi assurda non è affatto, secondo cui il pericolo di malattie ed epidemie è paventato da chi del terrore vuol fare uno strumento subdolo di controllo e manipolazione. Si arriva nuovamente all’ipotesi e alla “necessità” del genocidio invocato in nome del benessere dei pochi. Circoli e ricircoli storici. Non se ne esce, tutto ritorna. Gli incastri narrativi inscatolati uno dentro l’altro e lo stridente sarcasmo stile british sono la ciliegina sulla torta. Menzione per la fotografia e la colonna sonora.

 

8. The Missing
The MissingPremio al thrilling perfetto: suspense, mistero, inganni, segreti, depistaggi, coinvolgimento empatico. C’è tutto in questo prodotto recitato egregiamente e che tiene con il fiato sospeso esattamente fino all’ultimo frame. Nulla è dato per scontato, l’inimmaginabile è sempre dietro l’angolo. Il genere potrebbe essere inflazionato, ma The Missing dimostra che quando c’è maestria e cognizione di causa nella sceneggiatura, nella regia e nella recitazione, può saltar fuori un prodotto p e r f e t t o. Inoltre, come detto sopra, il coinvolgimento empatico è stato totale. Mi son trovata a pensare al piccolo Olly notte e giorno, chiedendomi quanti casi simili esistano in verità. Si parla della scomparsa di un bimbo che si vedrà solo per pochi frame e che, nonostante ciò, fa avvertire la propria presenza costantemente, mentre il cuore sobbalza ad ogni apparente svolta dell’’indagine. Merito della serie è vedere come protagonisti persone assolutamente “nella norma”, semplici, quotidiane, senza fighi di turno, a far sembrare tutto sempre più reale e plausibile. Tre archi temporali perfettamente gestiti e un lungo e degenerante effetto domino che lascia attanagliati fino alla fine, fino all’ultima inesorabile e scioccante scena.

 

7. Orange Is the New Black
OITNBPremio alla risata (amarissima). Una Dramedy cruda, sarcastica e verosimile, dove però il lato drama è preponderante e dove, anche qui, l’empatia la fa da padrona. Come non mettersi nei panni di una donna assolutamente normale che per aver fatto una cavolata assolutamente normale nell’età più stupida, finisce per pagarne il prezzo nella sua vita da adulta, proprio quando il suo futuro sta per prender forma? Orange Is The New Black accende i riflettori sulla realtà praticamente impossibile del carcere, dove si entra in un mondo, con dei valori e delle convinzioni, e se ne esce (se se ne esce) completamente segnati e trasformati. Si riflette su come istituti di rieducazione sono spesso luoghi alienanti da cui le persone escono abbrutite e più violente che mai; oppure luoghi che, anche nel loro squallore, rappresentano pur sempre un rifugio dall’orrido posto che è la vita reale per alcuni individui. C’è una tristezza permeante tutta la serie. Il primo episodio l’ho visto col nodo in gola e le lacrime agli occhi (da qui lo stupore nell’aver visto la serie candidata tra le comedy agli ultimi Emmy). Si impara a temprarsi con le protagoniste e a riflettere sul relativismo di tutto ciò che ci circonda. Ridiamo per non piangere, mentre pian piano ci caliamo nella dura realtà della detenzione e cominciamo a farcene una ragione, per non impazzire. Salvo, poi, scontrarci con duri momenti di presa di coscienza in cui si realizza che la vita vera è lì fuori e continua a scorrere mentre il nostro tempo è messo in pausa, sprecato in un limbo, e che non ci verrà mai più restituito.

 

6. Rectify
RECTIFYPremio alla riflessione etica. In una sola serie viene condensata la riflessione sulla profondità dell’essere umano, sulla bestialità e stupidità dell’essere umano stesso, sull’innocenza e sull’ingenuità, sulla sottile e opaca separazione tra bene e male. Rectify è tutto questo. Alla base della narrazione c’è un giallo. Chi ha ucciso Hanna Dean? Daniel Holden, originariamente accusato e incarcerato nel braccio della morte per 19 anni, è colpevole o innocente. Quanto c’è della colpevolezza di una società intera in un omicidio che poi, come risoluzione finale, viene imputato a un singolo individuo? Quanto possono essere malvagi un individuo, un paese, una comunità pur di vedere esorcizzate le proprie colpe più misere e recondite, tramite un capro espiatore? Si affronta il tema della rieducazione, non in carcere, ma nella vita reale, dove diviene necessario reimparare ogni giorno, una volta usciti, i desideri, le pulsioni, le apparenze e i sentimenti. Viene toccato anche l’argomento della fede cattolica, dal suo aspetto più becero e bigotto a quello più sentito e genuino. La periferia americana di Rectify sembra fare l’eco alle nostre periferie etiche e morali, quelle dove preferiamo pensare che i mostri sono gli altri, mentre ci battiamo il petto e ci ergiamo a stinchi di santo, chiudendo sotto chiave i nostri peggiori istinti. Menzione speciale per la sigla.

 

5. The Affair
THE AFFAIRPremio alla terapia di coppia (o di coppie). Una delle migliori serie sul rapporto di coppia, sul matrimonio, il tradimento e le separazioni (dai lutti ai divorzi). Al momento viene battuta solo da The Slap, che però non è in gara, essendo andata in onda anni addietro. Non si riesce a prender le parti per nessuno, e questo fa già capire a che tipo di prodotto siamo di fronte. Le persone sono pianeti di emozioni sfumate, contraddizioni, incoerenze, indecisioni, ripensamenti, lacerazioni interiori che spesso portano a ferire qualcun altro pur di tornare in superficie e riprender fiato. La particolarità della serie è l’accento sulla relatività di ogni ricordo a seconda di chi è che lo rivanghi, a sottolineare ancora una volta come stiamo tutti insieme, ma in effetti siamo universi unici e isolati, con codifiche tutte personali della realtà e delle emozioni. Sullo sfondo di tutta la narrazione c’è un giallo da risolvere, ma onestamente gli do unicamente il valore di un pretesto narrativo per accentrare l’attenzione sulle ricostruzioni dei due interrogati: Noah (Dominc West) e Allison (Ruth Wilson). Per il resto, per quanto mi riguarda, l’omicidio potrebbe pure non esserci e si conserverebbe il valore del racconto intonso. Davvero bella la sigla.

 

4. Masters of Sex
MastersOfSex_Masters and JohnsonPremio alle Donne! Psicanalisi e sessuologia vanno a braccetto. Impari, scopri, ti rendi conto e poi ti fai anche un’autoanalisi. Meglio di così! Masters of Sex è una serie che tuttora, nel 2014, insegna e fa scoprire curiosità e misteri sulla sessualità, in particolar modo femminile. Insomma, nell’era in cui la pornografia te la schiaffano in faccia anche quando chiedi solo un caffè, mi sembra un mega successo parlare di sesso con estrema eleganza e sobrietà, e per giunta mettendo in risalto l’elemento primario ed essenziale del sesso: la psiche. Hai voglia a usare viagra e lubrificanti, se non ti lubrifichi anima e cervello: tira su quella zip, ché non serve. In soldoni sembra questo il messaggio della serie. E a insegnarcelo è proprio Virginia Johnson (Lizzy Caplan) che si trova a collaborare, amare e combattere proprio con il più positivista della ricerca, William Masters (Michael Sheen). Lui attento ai dati, ai numeri e alle reazioni, lei attenta ai trascorsi, ai momenti, alle emozioni, ai traumi. È così che è nata la più grande ricerca sul sesso che ha frantumato il muro di bugie, superstizioni e tabù degli anni ’50 e ha aperto le porte alla scienza del piacere, ma soprattutto alla legittimazione del piacere. La rivoluzione dei costumi, della società tutta e delle donne passa da lì. Masters of Sex offre uno scorcio storico e sociale di spessore, curato con dovizia, passione e maestria. Menzione speciale per l’episodio 3 della seconda serie, “Fight”, un compendio di psicanalisi! Seconda menzione speciale per la sigla: una meraviglia!

 

3. The Newsroom
the newsroom teamPremio verità, eleganza, ironia! Cosa succederebbe se un telegiornale si mettesse in testa di raccontare la verità nient’altro che la verità, le notizie, quelle vere, e non quelle confezionate per l’audience? La rivoluzione! E se a dirigere quel telegiornale si ponesse un manipolo di gente che vuol fare il Don Chisciotte della situazione? “Un vecchio uomo affetto da demenza che pensava di poter salvare il mondo da un’epidemia di inciviltà comportandosi come un cavaliere. La sua religione era la dignità”. Ecco lo spirito di tutta la redazione di The Newsroom, e quindi della serie. Una serie profondamente americana, ma che al contempo degli USA sbeffeggia le idiosincrasie, le contraddizioni, i fallimenti e il pavoneggiarsi imperialistico. Una serie profondamente umana, fondata sul piacere della cronaca e della critica, molto impegnata senza, tuttavia, rinunciare all’intreccio narrativo. Il sarcasmo e le mille mila battute al secondo sono il fil rouge di un gioiellino che mi mancherà, e pure tanto. Oscar alla mia eroina MacKenzie McHale (Emily Mortimer), a Will McAvoy (Jeff Daniels), a Charlie Skinner (Sam Waterston), a Jim Harper (John Gallagher Jr.), Don Keefer (Thomas Sadoski). Vabbè, lo darei a tutto il cast, ma mi contengo.

 

2. Mad Men
Don Draper_ Mad MenPremio per tutto! Psicanalisi, storia, caratterizzazione, scenografia, sceneggiatura, fotografia, costumi, colonna sonora, eccellenza narrativa. Mai una sbavatura, mai un abbassamento di tono. Sei stagioni e mezza e Mad Men ha sempre rivelato qualcosa di nuovo, ha sempre scavato più a fondo, non ha mai sbagliato un colpo. È la saga di un personaggio, Don Draper, che sprofonda e precipita esattamente come il suo alterego fumettistico dell’intro. Tutto il resto non è contorno, ma sono capitoli letterari di pianeti orbitanti intorno a quello principale di Don. Le donne, anche qui, hanno ruoli determinanti. Sono specchi per gli uomini, talvolta sono concorrenti, talvolta guaritrici miracolose, altre volte stelle nascenti in una corsa perenne alla conquista di se stesse e dei propri desideri. Elisabeth Moss, nei panni di Peggy Olson, è una strega ammaliante, un’eroina, una donna combattuta e divisa tra femminilità e carriera, tra necessità e desideri, tra biologia e lavoro. Ma il centro, ancora una volta, è Don con la sua doppiezza, con il suo essere pur sempre Dick, con i suoi fallimenti, con le batoste che deve necessariamente incassare per crescere e abbandonare il bambino abusato della sua infanzia. E l’unico modo si è dimostrato essere il sottomettersi in prima persona ai colpi della vita, e non solo l’attaccare e sottomettere l’altro. In fondo, la storia di questi “uomini pazzi” è la storia tanto della creatività di Madison Avenue, quanto della follia di una generazione che è stata macchiata dalla guerra, dalla povertà, dalla genitorialità contorta e distorta e che ha combattuto una vita con questi traumi irrisolti, spesso tramandandoli alla progenie. Mi fermo qui, devo. Menzione speciale per la chiusura dell’episodio sette della settima stagione, perché “The best things in life are free”!

 

1. Olive Kitteridge
Olive KitteridgePremio al tempo e alla letteratura. Olive Kitteridge è una miniserie tratta dall’omonimo romanzo di Elizabeth Strout, e posso dire che si vede. Non ho letto il libro, ma la serie è prettamente letteraria. I tempi non sono quelli televisivi, il ritmo è quello dell’interiorità, del lento e oleoso scorrere degli eventi quotidiani. Sono solo quattro episodi, eppure sembra di aver passato anni con i due protagonisti. È veramente strabiliante. Quattro ore di girato in cui veniamo catapultati nelle prassi giornaliere di Olive ed Henry e nell’arco temporale di 25 anni, in cui succede tutto e nulla. Attraversiamo con loro tradimenti, rimpianti, pentimenti, rimorsi, recriminazioni, che sono quelli delle persone comuni, di tutti noi, o per lo meno di quegli animi attenti ai dettagli della vita, ai suoi lievi ed impercettibili mutamenti in grado, però, di far deviare strade e destini. Olive è la protagonista, Henry la sua tanto inevitabile quanto imprescindibile spalla. La storia matrimoniale è quella che pone in rilevo le storie individuali dei due protagonisti, prima coniugi e poi genitori. E nel rapporto a tre, madre – padre – figlio, escono fuori le dinamiche apparentemente più semplici ma in realtà più contorte e problematiche. La dispotica e onnipresente immagine della madre, la traballante autostima del figlio, bimbo prima e adulto poi, la frustrazione di un marito innamoratissimo, ma respinto, sebbene voluto. Un odio-amore lancinante. E poi Olive: algida, imperturbabile ma funestata, passionale ma repressa, in perpetua punizione, chissà per espiare quale colpa. Ostinata nel negarsi il piacere e lo slancio, la vediamo aggrapparsi lungo l’arco della sua vita a poche e rigide barriere difensive, per tenersi lontana da tutti, in primis da se stessa. Poi divenire canuta, piegata, stanca, con gli occhi prossimi a una nuova nebbia e riaccendersi, infine, di una rinnovata speranza, forse più un’indulgenza verso se stessa, verso il mondo e la vita, ancora fertili di nuove sorprese. Storie nella storia, nessuna adrenalina, nessun colpo di scena, ma tanta, tantissima, amarezza mista a un’infinita dolcezza mai mielosa, mai edulcorata, ma vivida e vera. Una riflessione su vita, matrimonio, maternità e vecchiaia degna, appunto, di un Pulitzer. È una serie che tocca l’anima, che porta a riflettere e a richiedere alcuni momenti di religioso silenzio per pensare, pesare e trarre conclusioni. È una miniserie che ricama attimi, storie e ricordi attraverso gestualità, colori e scorci. È preziosa perché non comune nella sua estrema schiettezza. Un gioiello. E vince il mio personale premio. Grazie, quindi, a Elizabeth Strout, a HBO, alla regia di Lisa Cholodenko, all’esemplare e rigogliosa e immensa interpretazione di Frances Mcdormand, a John Gallagher Jr. e alla performance fenomenale di Richard Jenkins (che, chissà perché è stato surclassato da una nomination ai Golden Globe di Bill Murray che, onestamente, non sfiora nemmeno il livello dell’ottimo lavoro di Jenkins). Particolare menzione, anche qui, alla sigla, che è un racconto nel racconto, un incastro di storie e favole che aprono il cuore e danzano con la fantasia.

Sono giunta alla fine di questa soffertissima classifica e devo solo accennare i miei premi di consolazione che vanno a Boardwalk Empire per l’eccelso finale, a The Honourable Woman per la narrazione e il tema politico e a Gomorra per aver fatto onore all’Italia.

Vi auguro un 2015 sicuramente migliore del 2014 (che ci vuole poco), pieno di serie e miniserie di ottimo livello e con tante novità!

Passo e chiudo!

Ditemi pure cosa ne pensate e se avete vissuto anche voi qualcuna delle mie emozioni.

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Lola23

Lunatica, incasinata, perennemente indecisa, una ne faccio e mille ne penso. Quattro elementi chiave della mia vita: Famiglia, Mare, Etna, Scrittura. Le serie TV sono il Quinto Elemento, una vera e propria dipendenza, meglio farsene una ragione. Le mie preferite? Non chiedetemelo! Vabbè, ve ne dico 3: Six Feet Under, The Wire, Treme... Mad Men! Ah sono 4... Ve l'ho già detto che non so decidere?
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