The Americans è uno dei migliori show in circolazione al momento, senza ombra di dubbio. E a ribadire il concetto ci ha pensato una quarta stagione brillante ed eccellente.
[Contiene spoiler sulla quarta stagione di The Americans].
L’anno scorso ci eravamo lasciati con Paige (Holly Taylor) che telefona al Pastore Tim rivelando che i genitori non erano americani, bensì delle spie russe che agivano per conto del governo di Mosca. Una rivelazione che aveva aperto molteplici scenari i cui sviluppi potevano prendere le strade più disparate. E sulla grande bugia che i Jennings hanno svelato a Paige, gli autori della serie (Joe Weisberg e Joel Fields) hanno costruito una quarta stagione che conferma gli elevati livelli narrativi su cui si è attestato lo show. I toni possono sembrare quelli di un fan accanito, che non riesce a guardare al di là del proprio amore per questa serie TV. Ma vi dico che The Americans questo entusiasmo se l’è guadagnato episodio dopo episodio. Perché The Americans è una serie che non si dà totalmente, ma si svela man mano che procede nel racconto, facendo scoprire sempre più livelli di introspezione che non siamo abituati a trovare nelle spy story di matrice classica, drammatizzando al massimo ogni singolo elemento a disposizione. Ci sono azione e tensione, ovviamente, ma a essere peculiare è il modo in cui lo spettatore viene tenuto sulle spine, senza far ricorso a spiegoni che accelerano l’azione e la indirizzano verso colpi di scena che ribaltano la situazione. Lo spettatore viene lasciato macerare in una serie di dialoghi, di allegorie e analogie, inquadrature ed espressioni che fanno di The Americans un ottimo esempio della tecnica narrativa chiamata “Show, don’t tell” (letteralmente “Mostra, non dire”).
A creare la tensione in questa serie ci pensano anche le varie missioni, ma sono le inquadrature, i tempi di recitazione, le risposte indugiate – dalle quali dipendono scelte con implicazioni morali per ogni singolo personaggio – a fare il grosso del lavoro. Le scene madri di questa stagione sono sintatticamente costruite in maniera egregia, restituendoci uno spettro etico all’interno del quale si muovono i diversi personaggi e dove determinate azioni trovano delle giustificazioni in un determinato contesto. Gli espedienti narrativi classici della spy story sono perciò declinati a un livello “secondario”, mettendo davanti l’introspezione dei protagonisti e ponendoli di fronte a scelte intime e personali che mettono in discussione le autorità superiori, anziché aggirarne le direttive per raggiungere il medesimo scopo. Se in serie TV come Homeland, 24, Alias o Nikita siamo stati messi davanti a una contrapposizione sostanziale tra buoni e cattivi – con il ritmo adrenalinico, il complotto che man mano si svela e ci porta a scoprire un disegno più grande – in The Americans, invece, tutto è predisposto sin dall’inizio con continui riferimenti all’incubo atomico (il riferimento al film The Day After nell’omonimo episodio della serie) e con i protagonisti che vengono costruiti e sviluppati ognuno secondo una propria identità: stretti nella morsa dell’american dream e del dovere verso la propria nazione (i Jennings), ossessionati dalla necessità di estirpare il male del comunismo dal suolo americano (Stan Beeman – Noah Emmerich – e l’FBI) o costretti ad abbandonare tutto in nome di una causa di forza maggiore (Martha Hanson, interpretata da una magistrale Alison Wright).
Storie di spie, di famiglia e di solitudine
La scorsa stagione ci eravamo lasciati con le parole di Ronald Reagan sull’evil empire rappresentato dall’URSS. Il comunismo è il male che va estirpato, è il virus che minaccia il sogno americano, è il corrispettivo di quella fiala che contiene il ceppo batterico in grado di innescare un’ecatombe. I russi sono la minaccia a quel sogno americano che, nonostante tutto, è riuscito a sedurre anche le fredde spie russe che un tempo erano i Jennings: «The job wasn’t meant to be forever» (La vostra missione non era a vita) dice Gabriel (Frank Langella), il supervisore del KGB, alle due spie nel finale di stagione. La prospettiva è quella di rientrare in Russia e lo sguardo di Philip ed Elizaebth dice tutto: dice che non sono più disposti a rinunciare a quella identità acquisita. Perché adesso Philip non vuole più alzarsi la mattina con la sensazione di nausea alla stomaco. Perché a Elizabeth mancherà davvero Young Hee (Ruthie Ann Miles) e la frivolezza della normalità. Ma soprattutto per Henry (Keidrich Sellati) e Paige che in quel sogno americano ci sono nati e ci stanno crescendo. Un sogno che per la giovane Jennings improvvisamente ha assunto le sembianze di una grande bugia, ponendola di fronte alla necessità di mettere insieme i pezzi di un’identità che non è mai stata sua. Era tutto una grande illusione, come la scomparsa della Statua della Libertà per mano di David Copperfield nell’ottavo episodio della stagione, uno dei due episodi più belli dell’intera stagione e che vede Matthew Rhys al debutto dietro la macchina da presa nella serie FX. In The Magic of David Copperfield V: The Statue of Liberty Disappears, questo il titolo dell’episodio, c’è tutta l’allegoria dell’illusione del sogno americano, della possibilità da parte dei Jennings di poter decomprimere dopo anni di missioni, prendendosi del tempo per se stessi e godere finalmente del proprio ambiente familiare. Di poter vivere come americani, di poter vivere normalmente, senza doversi preoccupare di uccidere qualcuno nell’ultima fila di un autobus o di dover tenere in casa un agente patogeno mortale. Senza far sì che casa Jennings sia il corrispettivo della cortina di ferro, dove una semplice cena si trasforma da momento di convivialità a momento di massima tensione (come nell’episodio Dinner for Seven). Ma quella vissuta dai Jennins è pur sempre un’illusione, una parvenza di normalità che dura giusto il tempo di far riapparire la Statua della Libertà. Perché, come dice l’agente Gaad (Richard Thomas) a Stan nel finale dell’episodio: «Whatever comes up – feelings, sympathy, friendship, whatever – you can’t lose sight of who these people are» (Qualsiasi cosa venga fuori – sentimenti, compassione, amicizia, qualsiasi cosa – non puoi perdere di vista chi sono queste persone). E, tanto meno, i Jennings possono perdere di vista chi sono, perché per quanto possano fingere di essere americani, Philip ed Elizabeth non sono nient’altro che le maschere che Mischa e Nadezhda usano per muoversi in America, creando dei legami esterni alla famiglia tutti basati sulla menzogna e che, in qualche modo, si riflettono tutte tra le mura domestiche.
La quarta stagione di The Americans ha fatto il punto su quelli che sono i rapporti inter familiari dei Jennings, partendo soprattutto dal background delle due spie sovietiche: se da un lato Elizabeth cerca in qualche modo di ricucire un rapporto con Paige, dall’altro non può fare a meno di trattarla come un soldato che deve fare rapporto sulle sue giornate con il pastore. Ricordiamoci che Nadezhda/Elizabeth è sempre stato il personaggio più dedito alla causa russa. Qualcosa di analogo si può dire di Philip/Mischa che mostra di tenere e di preoccuparsi del suo primogenito russo, lasciando Henry in balia della sua routine a base di videogiochi e del suo ripescare una figura paterna nel vicino di casa, Stan Beeman. Tuttavia è Philip colui il quale è più preoccupato della natura della relazione che Paige ha intrapreso con Matthew Beeman (Daniel Flaherty), il figlio di Stan, insicuro sul fatto che si tratti di reale infatuazione oppure solo un modo per carpire più informazioni da casa dell’agente dell’FBI.
Del resto Misha/Philip/Clark sa bene quali costi comporta una relazione basata sulla menzogna e proprio la partenza di Martha per l’Unione Sovietica rappresenta per Clark una grossa sconfitta sul piano emotivo: è il tradimento più grande compiuto da Philip, forse più grande di quello che potrebbe compiere nei confronti della madrepatria. Perché l’ex segretaria dell’FBI aveva soprasseduto su tutte le bugie di Clark in nome di un amore puro e devoto nei confronti della spia russa, ma adesso è consapevole del tragico destino al quale va incontro, probabilmente più tragico della morte stessa: «I’ll be alone, just the way I was before I met you» (Sarò di nuovo sola, come lo ero prima di incontrare te). La Russia è un’incognita per Martha, che quasi sicuramente si troverà ad affrontare la solitudine più estrema, sradicata dalla sua vita e dai suoi affetti e trapiantata in un habitat del tutto sconosciuto. L’alternativa, del resto, è l’arresto e tutto ciò che ne consegue. C’è la speranza, da parte di Martha, quantomeno di continuare a vivere seppur in esilio. Le scene che accompagnano la partenza dell’ex segretaria dell’FBI parlano da sole e se non ti bevi i pianti, poco ci manca, con quella raccomandazione che la donna fa a Clark: «Don’t be alone» (Non restare da solo), un consiglio rassegnato a riprova dell’amore incondizionato che Martha prova/provava per la spia sovietica. Perché, in fondo, i personaggi di The Americans pur vivendo le loro relazioni, sono personaggi tragicamente soli, che nei momenti di intimità appaiono fragili e vulnerabili: cercano di riprendersi da un matrimonio finito (Stan), cercano riparo in una figura paterna diversa da quella biologica perché assente (Henry), cercano di trovare conforto, raccontando per allusioni la propria solitudine durante un gruppo di ascolto (Philip) e cercando di appartenere a qualcosa di diverso dalla propria routine. Devono rinunciare a quell’amicizia nata collateralmente a una missione (Elizabeth/Youg Hee) o subire l’espulsione dagli Stati Uniti senza che la diplomazia possa intervenire (Arkady). Preferiscono incorrere a morte certa piuttosto che marcire in una prigione federale (William, interpretato da Dylan Baker) o ancora incrociano il proprio destino nel triste corridoio di un gulag russo, con una pallottola sparata in testa a brucia pelo e a distanza ravvicinata.
La morte di Nina (Annet Mahendru) è stata un pugno nello stomaco, morte avvenuta nell’altro fantastico episodio di questa stagione, il quarto dal titolo Chloramphenicol. La sua morte, insieme alla partenza di Martha per la Russia, solo il culmine della tragicità dei personaggi femminili, sempre leali ai loro partner ma lasciate inevitabilmente sole, nell’amara consapevolezza che ciò che provavano per i loro uomini magari un fondo di autenticità l’avevano pure, ma certamente rientrava in ciò che poteva essere sacrificabile all’interno di un gioco più grande di loro. La morte di Nina è stata un’altra pietra miliare di questa stagione, perché ha dimostrato che mettere davanti l’economia del racconto è più importante del portare avanti delle story line che attualmente possono dare ancora poco alla storia. E anche uccidere un personaggio amato dal pubblico ha le sue necessità. Lasciare viva Nina sarebbe stata un’alterazione del racconto perché era pur sempre prigioniera in un gulag e strascicare il suo arco narrativo non solo avrebbe sottratto minutaggio alla story line americana, ma avrebbe scollato il racconto dalla realtà rendendolo meno verosimile.
La quarta stagione è terminata con un episodio che ha chiuso il cerchio aperto dodici episodi prima, con quella fiala a irrompere sulla scena e con una domanda sul futuro dei Jennings (restano o partono?), risparmiandoci quei cliffhanger da quattro soldi su cui spesso vengono costruiti i finali di stagione. La serie di Fields e Weisberg ha mostrato ancora una volta come la consapevolezza è che The Americans, attualmente, è una delle serie migliori in circolazione, una serie che offre un caleidoscopio di personaggi in grado di fare un gioco di specchi equilibrato e impiegando un tipo di scrittura pregiato. La speranza è che le ultime due stagioni previste possano portare a una conclusione della serie all’altezza della fama che questo show si è conquistato.
Note a margine:
- Il finale della quarta stagione setta il calendario dei Jennings al 22 gennaio 1984, giorno in cui è stato disputato il XVIII Super Bowl. A meno di salti temporali enormi è probabile che nella serie non vedremo la caduta del muro di Berlino.
- Sempre nel season finale, viene introdotto fisicamente il figlio russo di Philip, Mischa (Alex Ozerov), che non lascia presagire nulla di buono per l’equilibrio emotivo dei Jennings.
- Le canzoni usate nella stagione (tra cui Tainted Love dei Soft Cell, Under Pressure dei Queen e David Bowie, End of the Line dei Roxy Music e Who by Fire di Leonard Coehn e Major Tom di Peter Schilling) sono tutte antecedenti o contemporanee alla time line in cui si svolge l’azione.
- Che fine ha fatto la pistola che Martha teneva nel suo appartamento?
- Gli incontri segreti tra Oleg e Stan, tra due agenti di fazioni opposte, mi hanno fatto venire in mente quelli tra Steeply e Marathe in Infinite Jest di David Foster Wallace.
- Tra poco meno di un mese usciranno le candidature per gli Emmy 2016. Ecco, magari se qualche premio di punta lo riservassero ai nostri Komrades sarebbe cosa buona e giusta.
- Il bacio tra Paige e Matthew è una delle cose più disgustose della serialità televisiva.
- In un tweet, Joel Fields ha condiviso una foto del documento a cui si è ispirato per dare il titolo all’episodio del season finale e del conseguente destino di Arkady.
In case you were wondering where “Persona Non Grata” came from… the letter that PNGed Arkady. 🙂 #TheAmericans pic.twitter.com/nCZy2zLvjP
— Joel Fields (@joel_fields) 10 giugno 2016
Si potrebbe parlare per ore di questa stagione di The Americans , trovando sempre spunti di discussione diversi. E, infatti, se vi viene in mente qualcos’altro su cui discutere, fatecelo sapere nei commenti qua sotto, in attesa della quinta stagione.
And God bless the Americans.
givaz
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