Ebbene sì, siamo giunti al finale della seconda stagione di The Bridge, remake americano della serie danese/svedese Broen/Bron. Facciamo il punto della situazione?
Bene, la serie non è stata ancora riconfermata da FX per la sua terza stagione, visto il notevole calo degli ascolti durante la seconda stagione. La tensione, è innegabile, è andata scemando notevolmente. Quello che aveva reso la prima stagione avvincente è venuto a mancare nella seconda, propendendo più per un’indagine dei personaggi che per l’intreccio narrativo.
In questa seconda stagione si fa maggiore luce sulla doppiezza del personaggio di Marco Ruiz (Demián Bichir) e sulle ambiguità di Sonya Cross (Diane Kruger). L’intreccio narrativo c’è, ma non è poi così adrenalinico. Per i primi episodi sembra di assistere all’incertezza narrativa degli sceneggiatori, non capendo bene dove andrà a parare la serie. Ma a ben rifletterci, anche la prima stagione spiazzò gli spettatori partendo da un filone narrativo (apparentemente diverso) per poi arrivare a concentrarsi su un secondo e parallelo filone, il conflitto Marco Ruiz/David Tate.
Il valore narrativo di questa serie, a mio parere, consiste nel trasformare in virtù quella che potrebbe, altrimenti, essere interpretata come dispersione. Si trattano contemporaneamente diverse storie, diverse prospettive, primarie e secondarie. I nostri eroi rimangono sempre in primo piano, ma nel frattempo si scava altrove per far emergere nuove voci e diversi punti di vista.
La pecca più grande di questa stagione, secondo me, è stata l’inverosimiglianza di alcune scene o la troppo vistosa meccanicità di alcune svolte narrative. A partire dal rapporto della (bravissima) Franka Potente con il proprio carnefice, per arrivare alla colluttazione tra Marco e Fausto Galvan (ma tu, davvero, una volta che hai la meglio sul più efferato criminale messicano, non gli spari nemmeno due colpi alle gambe per assicurarti che non scappi?). Poliziotti che pedinano e perquisiscono in totale solitudine camion corrieri di chissà cosa, la CIA che commette errori marchiani, un sospettato collegato al trasporto di 10 tonnellate di droga libero di lasciare l’ospedale senza nessun ostacolo… Insomma, dettagli, nemmeno così piccoli, che hanno smorzato un po’ l’entusiasmo. E l’elenco potrebbe continuare.
Però c’è un però, ed è quello che mi farebbe continuare a seguire la serie, e cioè la verosimiglianza non tanto degli intrecci, quanto del contesto e della realtà storica. Il rapimento inarrestabile di donne, che vengono avviate al mercato degli schiavi o che vengono stuprate e fatte a pezzi senza lasciare traccia ed in memoria delle quali nascono cimiteri di croci rosa; la connivenza delle istituzioni messicane, la connivenza, ancor più grave, delle istituzioni statunitensi, la solitudine e il senso di abbandono di chi, a questo stato di cose, vorrebbe opporsi.
A rischio di sembrare ripetitiva, la lettura del libro di Roberto Saviano, ZeroZeroZero, affiancata alla visione di questa serie, rende tutto ancora più chiaro e tristemente verosimile. Al di là della storia dei nostri eroi e anti-eroi, quello che accade a Ciudad Juárez nella serie The Bridge, è quello che accade a Ciudad Juárez nella realtà, mantenendosi, anzi e purtroppo, ben al di sotto del reale livello di illegalità e atrocità che campeggia da quelle parti.
Detto questo, il finale ci lascia senza un reale cliffhanger, cosa che, per altro, era avvenuta anche al termine della prima stagione. Ma permane la curiosità sulla sorte dei nostri due protagonisti, Sonya e Marco, che si son messi contro i tre peggiori nemici che si possano immaginare: un cartello messicano, la polizia messicana e i servizi segreti americani. E, come la cronaca ci racconta, non rimangono superstiti da questi scontri tra titani e lillipuziani. E poi, che ne sarà di Eleanor Nacht?
Voi cosa ne pensate? Dareste un’altra chance a The Bridge? Rimanete dei fedeli o ne siete delusi? Diteci la vostra, e nel frattempo aspettiamo le nuove da FX.
Lola23
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