Anche per me è arrivato il momento di tirare le somme di un anno di serie TV, quelle andate in onda l’anno appena trascorso. E con questo terminiamo anche la carrellata di Top 10 del 2015!
Devo sottolineare una piccola nota autobiografia: I got married! E quindi, sì, mea culpa, ho visto meno serie TV del solito, risucchiata come sono stata dalla pazzia dei preparativi. Ma la mia top 10 è pronta da sfornare ugualmente. Ci sono sicuramente dei recuperi che urgono, come Narcos, True Detective, This is England. Ma considerate anche che questo è stato l’anno di un grande rewatch: Breaking Bad, che mi ha sottratto parecchie energie (certi capolavori vanno visti tutti di seguito).
Bando alla ciance, andiamo alle dieci, sofferte, posizioni.
10. Masters of Sex – Showtime
Ci ho pensato, riflettuto e rimuginato sopra tanto, ma tanto. E alla fine ho ceduto e l’ho riposizionata dentro la mia top 10. Volevo “punire” Masters of Sex per aver perso un po’ la rotta ed essere caduta preda di facili meccanismi narrativi, come smielate storie d’amore o storie di pseudo spie. Ma poi alla fine, come sempre, non mi sento di bocciarla questa serie, perché si distingue comunque dalla massa incolore delle serie “di facile consumo”, passatemi il termine. Perché è comunque un buon prodotto televisivo e narrativo, curato nei dettagli, nei costumi, nel ricamo dei personaggi. Leviamoci subito dalla testa anche solo il tentativo di paragonarla a Med Men; non basta indossare dei vestiti anni ’60 per accostarsi al colosso di Matthew Weiner. Ma non perché questo confronto sia improponibile, significa che la serie non abbia un suo valore intrinseco ed autonomo. La sceneggiatrice Michelle Ashford e il suo team hanno dato vita a una serie dall’indubbio valore storico, visto che fa ben luce su un periodo storico, quello che va dagli anni’50 ai ’60, ma sviluppando un tema noto a pochi: la sessualità bigotta degli Stati Uniti (e quindi della cosiddetta società evoluta tutta). La terza stagione ha avuto il merito di prendere sotto la più accurata ala narrativa i personaggi, che sono stati smontati, analizzati, rimontati, con il risultato di presentarceli sotto nuove e diverse luci, spiazzando le nostre aspettative e pretese da telespettatori. Chi guarda Master of Sex aspetta la rivolta di Libby, che finalmente nella terza stagione arriva e velocemente, però batte in ritirata e sprofonda nella solita subalternità femminile. Chi assiste alle vicende di Virginia, non vede l’ora di vederla aprire gli occhi e mandare a quel paese quella sotto specie di uomo che è Bill Masters. Ed ecco che lei finalmente lo fa, per poi, però, rimpiombare nel modello di donna che si riscatta sempre attraverso la figura di un uomo, un uomo-gruccia, a cui appellarsi ed appigliarsi. Ci si aspetta, anzi si spera, che finalmente Bill Masters cominci a incassare qualche serio fallimento, ma chissà, se la serie si atterrà ai reali fatti storici è probabile che Masters si riprenda come al suo solito, più cinico che mai. Vedremo! Forse i tempi non sono ancora maturi, e forse la quarta stagione, portandosi più in là negli anni e nello sviluppo storico (presumibilmente) potrebbe finalmente far maturare i personaggi femminili e dare loro la giusta rivalsa. Ecco un buon motivo per continuare la visione e aspettarsi un miglioramento.. Menzione speciale a Lizzy Caplan e Caitlin Fitzgerald per le interpretazioni davvero intense e dettagliate. Ottima colonna sonora!
9. Orange is the new black – Netflix
Sebbene sia stata la stagione che mi ha convinto meno di tutte le tre, il solo finale l’ha riportata in auge nel mio cuore. La cosa che mi è molto piaciuta di tutta la terza stagione di OITNB è la secondarietà che assume il personaggio di Piper Chapman con le sue crisi, le sue indecisioni, le sue riflessioni sdolcinate, incasinate e che sinceramente mi hanno stufato, e la preminenza, invece, che finalmente è stata data ai vissuti di tutti gli altri personaggi del carcere femminile. Alla fine dell’ultimo episodio non soltanto sappiamo perché ognuna di quelle donne è finita in carcere, ma sappiamo proprio chi sono, o chi erano prima di entrare in carcere e chi stanno diventando. Bello il modo in cui è stata affrontata la tematica della fede, del battesimo, della rinascita a cui tutte, ognuna in modo diverso, ognuna col proprio credo, alla fine aspirano. La tematica sociale della prigione emerge con tutta la sua forza e mescola al proprio centro tutte le varie tematiche che pertengono alla società americana: il multiculturalismo, le tendenze sessuali, la famiglia e la tanto odiata burocrazia. Altro filone tematico sarà, infatti, la burocrazia che giunge a disumanizzare tutto e a spogliare ogni intento positivo e indulgente fino a ridurlo ad un arido e meccanico agire in nome della legge, delle regole e dell’interesse personale che prevale su quello collettivo. Il finale ha conquistato il mio cuore perché mi è sembrato un vero e proprio dipinto. Ci sono queste donne che faticano quotidianamente nello scontarsi, nel ricomporsi, nel fidarsi l’una dell’altra, nell’arrendersi all’idea di una lunga privazione della libertà, ed improvvisamente vedono una breccia, uno spiraglio che le condurrà ad una momentanea e illusoria libertà, e loro lo sanno, ma è tutto quel che hanno e a cui possono ambire in quel momento: immergersi, come non fanno da anni. È un’occasione irripetibile, imperdibile. Un’immersione che per molte coincide con la riconciliazione, il perdono, la conversione, la rinascita. È un momento in cui tornano padrone di loro stesse, pur sapendo che, appunto, è solo e unicamente un momento. Ma tant’è, davvero rinascono. Regrediscono allo stato più puro della libertà: quello infantile. E poi, proprio gli ultimi secondi fanno intravedere ciò che le aspetta, oltre le punizioni disciplinari: nuovi processi di convivenza e integrazione, nuove fatiche. Come a dire che non c’è mai un attimo di pace, di stabilità. La quiete raggiunta in un determinato stato di vita è apparenza, mera instabilità. Si vedono arrivare nuovi camion di detenute, contro ogni prescrizione di vivibilità all’interno del carcere, ma in nome della maggiore razionalizzazione possibile di spazi: tutto in nome della signora burocrazia. Siamo pur sempre in un istituto penitenziario, dove le vite non sono riconducibili a persone, bensì a numeri e statistiche. PS. È una serie consigliata da Roberto Saviano, e ci sarà un perché!
8. Transparent – Amazon
A quanto pare il 2015 è stato l’anno della confusione sessuale nelle serie TV (e quindi nelle nostre società). Bella serie con una regia e una fotografia fenomenali. Attori di grandissimo spessore e una bella analisi psicologica. Non sono sicura del fatto che questa serie mi piaccia per gli stessi motivi per cui gli sceneggiatori volessero che piacesse, ma mi ha molto colpita. La seconda stagione è stata veramente strabiliante e ha staccato di svariati punti la prima che già mi convinceva, ma che non era ancora matura. Il motivo per cui non so se il mio gusto coincida con le intenzioni di chi ha sceneggiato la serie è che se l’intento era quello di dimostrare che la “confusione sessuale” è bella, che si può vivere bene e felici anche con una famiglia totalmente scombinata, ecco, io penso esattamente il contrario e son convinta che il messaggio sottile della serie, in effetti, sia proprio quello: il malessere della famiglia (in questo caso sessuale, in altri casi di qualunque genere esso sia), in primis dei genitori, si diffonde inevitabilmente a tutti gli elementi del nucleo familiare che per il resto della loro vita dovranno combattere con i fantasmi interiori, con i propri archetipi genitoriali, con la confusione, con i rimpianti, con le fantasie frustrate e, soprattutto, con la mancanza di una guida. Sebbene l’atmosfera della serie sia allegra, leggiadra, a tratti spensierata, incombe, a ben vedere, su tutti i dieci episodi una tristezza disarmante. Non c’è un solo personaggio che non fatichi a rimanere a galla dopo vari sprofondi, crisi di panico, crisi di identità, rimorsi, fallimenti, abbagli e chi più ne ha più ne metta. Così come è meraviglioso che ci venga proposto un modello di famiglia che tutto sommato si ama e rimane unita (per quanto possa essere considerata unita un’entità totalmente scompaginata come quella della famiglia di Transparent), dove i figli accolgono un padre rivelatosi trans, è al contempo anche agghiacciante notare come la frustrazione sessuale covata dal padre per decenni si sia fatta comunque strada silenziosamente nei rapporti con la moglie, in quelli coi figli e, quindi, in quelli tra i figli e i propri partner. Non penso sia casuale che si sia deciso di ritrarre tutti i componenti della famiglia in preda a delle grossissime confusioni sessuali e a delle infelicità inconsolabili. Il tutto è portato poi alle estreme conseguenze, calcando anche un po’ la mano e inserendo degli elementi poco verosimili. Ma ci sta. Tutto è perfettamente incastrato e al suo posto in questa magnifica serie, in cui gli elementi di un passato, come quello nazista (meravigliosa e poetica incastonatura narrativa), si fondono alla perfezione con la narrazione lirica di un presente tuttora sconvolto in cui, tutto sommato, il diverso è sempre messo all’angolo. L’alternanza di flashback e narrazione corrente è stato l’elemento più poetico e interessante di tutta questa seconda stagione. E anche in questo caso, a ben vedere, mi sembra che si voglia sottolineare come una certa sorta di disagio sia quasi “ereditato” o che comunque passi di generazione in generazione, quando non lo si affronti e lo si accetti nei dovuto, e delicati, modi. Il finale è davvero degno di nota, con un primo piano che non ha bisogno di parole o delucidazioni. Si è portati a riflettere come, alla fin fine, sebbene viviamo in tempi di cosiddetti facili costumi, di libertà sessuale e di genere, pare che nulla, o poco, sia cambiato e che oggi come allora la sessualità sia come imprigionata all’interno di stereotipi, o forse di semplici direzioni, la cui rottura provoca dolori molto simili a un lutto (vedi la toccante scena del personaggio di Josh Pfefferman). Altro elemento che ho apprezzato tantissimo è la ridicolizzazione del revival della poetica femminista, tanto miseramente fallita negli anni ’60 – ’70, quanto anacronistica e inverosimile riproposta in una società odierna. La magnifica colonna sonora è calibrata alla perfezione con ogni frame, un’opera minuziosa che restituisce un complesso armonico e leggero. Premio dell’anno all’intro più bello. Menzione speciale alla schizzata, eclettica, camaleontica, intensa Gaby Hoffmann e al grande Jeffrey Tambor, dai silenzi e dalla mimica facciale encomiabili.
7. Mozart in the Jungle – Amazon
Adesso Amazon, oltre che portarmi a casa libri e i beni più disparati, mi porta pure le serie TV. E che vuoi di più!? A parte gli scherzi, Mozart in the Jungle è stata già una piacevole sorpresa nel 2014, ma nel 2015 è stata proprio una bella conferma. Affascinante, interessante, nuova, fresca, frizzante e con una spolverata di elementi surreali qua e là che mi hanno definitivamente conquistata. E per essere una che non ama le comedy, devo dire che questa mi ha davvero conquistata. Ovviamente ammetto che l’80% della conquista è stato effettuato e portato a termine da Gael García Berna, che oltre che intensamente attraente, è di una bravura eccezionale. Si cala nel personaggio del protagonista Rodrigo De Souza in maniera perfetta e ne estrinseca le potenzialità e tutte le sfaccettature in modo davvero coinvolgente, intenso, significativo e carico di energia. Dieci e lode per García Berna! La serie, poi, ha un suo bagaglio di riflessioni e significati da non sottovalutare per niente, anzi. Il tema fondante della serie è lo scontro tra l’aridità e l’arte, tra la postmodernità e l’estro creativo, uno scontro che troppo spesso oggi vede soccombere la vena artistica a favore di logiche burocratiche e di marketing, dove spesso la prima è incarnata dalla gioventù e le seconde dalla vecchiaia stantia e ammuffita. La giungla, infatti, è la società corrotta e contorta di oggi, incarnata per eccellenza da una metropoli come New York, ancora una volta, come simbolo di tutto e di niente, di caos e di una persistente difficoltà comunicativa. Rodrigo viene chiamato per svecchiare l’orchestra sinfonica di NYC e per riportare ciò che anima, solitamente, un’orchestra: l’arte, la poesia. Come non dondolare la testa e socchiudere gli occhi insieme a lui quando dirige in un trasporto onirico la sua orchestra? È una poesia lui e la musica che le nostre orecchie hanno il previlegio di ascoltare. La mia menzione speciale va anche alla capacità di questa serie di affrontare un argomento, secondo me, parecchio ostico: la musica classica. Considerata oggi vetusta, passata, ascoltata stancamente e con superficialità, la musica classica in Mozart in the Jungle riceve un’attenzione unica e la serie ci invita a prestare attenzione ai mille importantissimi e imprescindibili dettagli che portano a un insieme maestoso e portentoso come quello di una sinfonia. (E solo per questa originalità tematica, dopo una sentita lotta, per me ha meritato una posizione in più rispetto rispetto a Transparent). Ci concentriamo, finalmente vediamo la musica e quindi diventiamo in grado di sentirla davvero. Una serie che sicuramente può essere educativa per i principianti, o meglio, per amatori. La storia d’amore che c’è alla base è, poi, quell’elemento che permette alla storia di fluire benissimo tra un episodio e l’altro. Io mi sono innamorata della risata di Hailey (Lola Kirke), sono la sola? La serie è candidata ai Golden Globe 2016 come miglior comedy e con Gael García Berna candidato come miglior attore protagonista in una serie comedy. Non sono esperta di comedy, ma di sicuro mi auguro che García Berna vinca il premio perché la sua interpretazione è veramente fenomenale e “note”vole (ho fatto la battuta!).
6. Rectify – SundanceTV
Elegante, intensa, toccante, profonda, umana. Per me Rectify è tutto questo. È una serie che, a mio parere, per essere apprezzata al meglio andrebbe vista tutta insieme e tutta d’un fiato, per non perdere piccoli dettagli, minuscole connessioni. Daniel Holden resta in carcere diciannove anni prima di essere dichiarato non accusabile per l’omicidio che lo ha condotto nel braccio della morte. Da quel momento in poi non si sa più se il carcere sia la vita vera o la prigione dei diciannove anni precedenti. Sembra che Daniel abbia disimparato a vivere, come ovviamente può essere. Ma al contempo sembra che tutti gli altri attori sociali, visti dalla prospettiva quasi vergine di Daniel, non sappiano vivere o non vivano la vita come dovrebbero o potrebbero. Quella del protagonista sembra una visione da “alieno” fra di noi. Le sue percezioni non sono le nostre e soprattutto il fluire del tempo non è vissuto da lui allo stesso modo nostro. Cambia tutto, perché questo tutto è stato rovinato, spezzato e gettato via in nome del bigottismo, del perbenismo, dell’ottusità provinciale, dell’ignoranza che preferisce sempre sacrificare un capro espiatorio pur di coprire col cemento (o col fango) le proprie colpe e responsabilità. Ecco, sì, la storia di Rectify è la storia di un capro espiatorio e di una società intera malata e turbata, che preferisce mettere la testa sotto la sabbia piuttosto che prender coscienza e assumere un reale e obiettivo metro di valutazione. È la storia del diverso e di quei pochi diversi che, a volte, finalmente, alzano la testa e si discostano dalla massa cieca e sanno vedere e leggere il diverso. Rectify è una serie che andrebbe fatta vedere soprattutto a coloro che tanto sproloquiano a proposito di integrazione, tolleranza e accettazione. Le scene si susseguono lentamente in un’eleganza di inquadrature da lasciare inebriati e appagati, le musiche, i silenzi, persino i rumori di fondo compongono un’orchestra generale che dà come risultato un risultato eccellente. Abigail Spencer, poi, resta la mia amata beniamina: bellissima, folgorante, bravissima. Aden Young, che dire, perfetto, azzeccatissimo, un mosaico di intuizioni e espressioni. Bella, bella, bella!
5. Girls – HBO
Lena Dunham per me è un miracolo di donna! È verace, sclerata, cruda, nuda, diretta, salace, malinconica, realista, utopista e tutto questo lo traspone nel suo piccolo capolavoro: Girls. Qui tutto raggiunge vertici davvero alti: la regia è davvero ineccepibile, una scuola per i videomaker di oggi; nessun virtuosismo, nessun sofisma, eppure ne esce fuori una narrazione fluida, accattivante, perfettamente condita, che ci tiene sempre attenti alle vicende (e le sfighe) dei nostri personaggi, come alle più generali tematiche sociali di oggi, che ci riguardano tutti. La quarta stagione è degna delle precedenti tre: nessuna caduta, nessun rilassamento. La bravura della Dunham sta nel fatto che dal più tetro pessimismo germoglia sempre un bocciolo di ottimismo verso il futuro. È come se la giovane cineasta ci sollevasse il mento e ci dicesse: “ce la possiamo fare, c’è ancora speranza”. Anche in questa stagione c’è a mio parere un mix di elementi che vanno dall’avanguardia newyorchese ideologica e artistica alla riesumazione di un’etica tra l’hippie e il femminismo, che però, come sempre, di volta in volta viene smontata e ridicolizzata (vedi l’episodio finale del parto interpretato dalla sempre fantastica e pazzesca Gaby Hoffmann). Ovviamente non è tutto il femminismo che viene abbattuto, ma buona parte delle sue estremizzazioni. I vari personaggi femminili di Girls sono giovani donne perennemente in crisi, alla ricerca di una propria identità lavorativa e sentimentale, ma che pur lagnandosi delle proprie debolezze e dei propri fallimenti, non si accorgono delle gran donne che stanno diventando. Perché è quello il tassello da comprendere: la vita vera non è un telefilm e nemmeno un film sempre a lieto fine; il lieto fine a volte c’è, a volte no, semplicemente perché non è lì, in quel momento, che dovrebbe esserci. Le persone non sono eroi, le donne non sono portenti sempre e comunque, i maschi sono spesso meschini, spesso grandi uomini nascosti dietro il bancone di un bar. Uno dei miei personaggi preferiti, che esce fuori in tutta la sua interezza proprio durante la quarta stagione, è Rey, un uomo complesso, diretto e dal basso profilo al contempo, un amico che sembra completamente fuori dal contesto amicale delle quattro ragazze, e che pure coglie le loro peculiarità, che finalmente ascolta invece di parlare soltanto. Ma quando parla… eh! Eccola la cosa che amo di più questa serie: manca totalmente la lagna simil femminista su quanto siano fighe le donne, su quanto siano più forti, più toste, più capaci degli uomini, su come siano un universo a parte. La serie si intitola Girls, ma lascia spazio anche agli uomini e smonta gli stereotipi di cui sono zeppe, solitamente, le serie che parlano di donne. Insomma c’è spazio per qualunque ritratto sociale e psicologico, il tutto sullo sfondo di una New York ingarbugliata, piena di ostacoli e aperture, dove tutto è possibile e impossibile allo stesso tempo; una città che, essendo il simbolo della città occidentale, forse rappresenta meglio e per eccellenza le paturnie della nostra società, le peripezie tra cui tutti ci barcameniamo oggi, credendo di essere sempre più liberi e scoprendo di essere, invece, sempre e solo più incasinati. Encomio per il finale che spiazza e sorprende, dove Hanna sembra davvero crescere e passare oltre.
4. Fargo – FX
La seconda stagione? Pari merito con la prima. Eccellente, grottesca, divertente, astrusa, profonda e amara ma senza prendersi mai troppo sul serio. Sketch e lunghe narrazioni quasi filmiche si alternano in un gioco complesso e intrecciato che lascia sempre a bocca aperta e non annoia mai, nemmeno-per-un-singolo-istante. Basta un dialogo per smontare due decenni di femminismo e cinquant’anni di sogno americano. Una navicella ufo e viene fuori tutta la demenza delle fanta-teorie catastrofiche made in USA. Una targa e torna subito alla mente il massacro degli indiani e l’ambizione di libertà a ogni costo a cui ambiscono da sempre gli USA. Vien da pensare che il loro sogno sia macchiato da un peccato originale, a cui ne sono poi seguiti svariati altri, intervallati poi dalla nascita delle più argute menti, dalle più spettacolari scoperte e così via. Insomma, Fargo ci offre un mosaico del buono e del cattivo dell’America. E come lo fa? Con una storia poliziesca, né più né meno. Assurdo, ma ci riescono perfettamente, nessuna teoria super articolata, nessuna introspezione. Basta una sceneggiatura arguta, una fotografia portentosa, una regia magistrale e una colonna sonora azzeccatissima. Promosso e super promosso. Ne ho parlato a profusione qui, per cui mi fermo.
Ed ecco il podio. Tutto psicologico (e come non potrebbe?). Ed è solo per questo che Fargo non vi è rientrato.
3. The Affair – Showtime
Storie di vita. Amori, tradimenti, rimpianti e rimorsi. Lutto. E un giallo. Tutto questo mix apparentemente piatto e scontato ha dato forma a una serie che sto apprezzando sempre di più grazie, soprattutto, alla sorprendente seconda stagione che l’ha portata dritta dritta al mio modesto podio, e a quello meno modesto dei più noti critici televisivi, soprattutto americani. Ciò che sorprende di questa serie è la capacità di raccontare con eleganza e con distacco un argomento comune ma delicatissimo: l’amore nelle sue svariate forme. Ciò che ho amato particolarmente di questa seconda stagione è stata la capacità di seminare gli elementi essenziali di tutti i filoni narrativi, di intrecciarli durante il corso della narrazione e di dipanarli poi per arrivare alla sorprendente rivelazione degna dei migliori gialli. E la cosa più bella è che di certo questa serie non la si vede come un giallo, ma come una storia psicologico-sentimentale che ha tanto da raccontare sui personaggi e quindi su di noi. L’elemento giallo viene poi, in un secondo momento, ma è funzionale a tenere le redini dell’intera narrazione. Se la prima stagione mi ha catturata, la seconda mi ha conquistata. Sarà sicuramente una di quelle serie che ricorderò per la dedizione con cui ogni personaggio è stato cesellato, scelto, studiato e ripensato. Noi telespettatori subiamo un’evoluzione insieme a quella dei personaggi, su cui non possiamo mai esprimere l’ultima parola. Come nella vita vera, d’altronde, in cui la linea tra il bianco e il nero non è mai una linea, bensì uno spettro con infinite miscele di possibilità. I personaggi di The Affair sono persone reali, o ci somigliano molto, per lo meno. E questo per assurdo, nonostante lo scenario sia quello dell’alta borghesia newyorchese ricca e benestante. È facile specchiarsi nel pozzo delle anime tristi di The Affair e, quando una serie permette coinvolgimento e identificazione, pur trattando anche temi non affrontati in prima persona nelle nostre vite, beh, per me è un successo a pieni voti. Nonostante una sbavatura nell’episodio nove, il tenore della seconda stagione di The Affair è talmente alto che il mio terzo posto non glielo leva nessuno. Ne ho parlato qui, e per questo mi fermo. Encomio assoluto per Maura Tierney, di cui mi sono profondamente innamorata, sia come attrice che come personaggio.
2. The Leftovers – HBO
Assurdità, ironia, sacralità, fede, misticismo, riflessione, illusione, silenzio, rumore, paura, timore, profezia. The Leftovers è un portento. L’ho deciso, lo so, anche se forse alla fine di queste poche righe non saprò spiegarvi bene il perché. Mancano le parole, le argomentazioni studiate e pensate che solitamente mi pertengono. Non so cosa diavolo sia, ma è quella cosa, sì, quella cosa che lascia di stucco, che muove l’anima, che fa bollire il sangue, che fa sgorgare le lacrime, che riporta alla mente vecchie memorie, che smotta antiche remore, che sveglia nuovi timori. È un concept quasi letterario che però non poteva trovare forma migliore che quella dell’immagine, e dell’immagine seriale. E la chiave di volta è la seconda stagione, quella cruciale, quella in cui il piccolo e fragile bocciolo della prima stagione, diviene un magnifica dalia florida, viva, rosea, composta dai suoi mille minuscoli petali, ognuno, nel suo piccolo, un micro universo. Ed è proprio questo The Leftovers, una storia corale, composta da storie individuali complesse, stratificate, ingarbugliate, ma che giungono tutte a convergere, per non si sa quale motivo, anche se se ne percepisce l’esistenza. Durante la prima stagione ci sono stati due o tre momenti in cui ho pensato di mollarla, non sapevo decidere se stessi vedendo una delle solite serie sul soprannaturale o se ci fosse dell’altro. Ma ha prevalso la seconda sensazione. Mi affascinava il ritmo lento con cui la serie mi suggeriva qualcosa, un valore nascosto. E quel valore è venuto alla luce già alla fine della prima stagione e poi tutto nella seconda. Quest’ultima si apre su un antefatto di milioni di anni addietro. Di per sé questo elemento potrebbe far storcere il naso, eppure non spegni, vai avanti, e subito, dopo appena quattro frame decidi che sì, devi assolutamente proseguire, che non è una cavolata, che ci sta, che ha senso. The Leftovers è davvero una serie che fa perno sul non senso, anzi proprio sulla sottrazione del senso, su una lobotomia della comprensione. Mi porta a fare una riflessione sul nostro tempo storico, fatto di superfluo, di non senso che noi, invece, vediamo come perfettamente sensato. E così tutto si capovolge e ciò che davvero dovrebbe avere senso e valore, nemmeno lo vediamo. Ci perdiamo, e nel perderci, spesso perdiamo le persone che ci stanno accanto. È forse questa la metafora di The Leftovers? Chi resta, e chi va? Ha forse importanza? C’è differenza? L’amore può intervenire, l’amore vero, quello originario e originale? Se riuscissimo, finalmente, a vederci e sentirci, potremmo uscire dal nostro torpore? Le parole servono in tutto questo frastuono di voci e informazioni e superfluità, servono veramente? Che sapore ha il silenzio? E il suo peso, è quello della colpa o della redenzione? C’è ancora tempo e speranza per noi? Dove abbiamo messo male il piede, nell’avanzare della nostra civiltà? Possiamo rimediare? Siamo soli? Cosa significherebbe per noi essere soli, veramente soli, dopo e oltre la vita? Saperlo con certezza potrebbe indurci a un cortocircuito? Serve la fede, serve come strumento, o è una condizione esistenziale imprescindibile? E se perdiamo la fede in Dio, siamo capaci di rimanere puramente atei o riverseremmo il nostro bisogno di credere sempre in qualcos’altro? Vi lascio con questi interrogativi perché non so dirvi altro. Per me questa serie è stata toccante come poche. Non voglio paragonarla a Lost, come molti hanno fatto, non è il momento, non ci sono le basi. Vedremo.
1. Mad Men – AMC
La storia delle storie. La serie TV che si pone come esempio per tutte. Per me questo è Mad Men, insieme a poche altre serie, come Six Feet Under e The Wire. Mad Men è un libro, né più né meno, un libro per immagini. Per essere più precisi potrebbe perfettamente essere uno dei migliori libri di Francis Scott Fitzgerald, che tanto minuziosamente sapeva descrivere e dipingere l’America degli anni’20, ’30 e ’40. Solo che Mad Men è ambientata negli anni ’60 – ’70, ed è stata scritta dal genio di Matthew Weiner. La doppiezza di un uomo (Dick Withman/Don Draper) che contiene in sé la doppiezza di un’era, l’epoca che ha approntato e sfornato i miti e i desideri merceologici che ancora oggi ci guidano (e ci perseguitano), l’evoluzione della donna, il crollo delle speranze, l’abbaglio del consumismo. È un’opera epica perché ha un valore più che narrativo, ha un valore storico, sociologico e psicologico. Mad Men è stata capace di consegnarci gli identikit psicologici di svariati personaggi con i quali, anche in questo caso, non è mai stato possibile schierarsi definitivamente, perché imperfetti, assolutamente umani. La bellezza incantevole dei costumi, della fotografia e la maestria della sceneggiatura piena di silenzi, di nodi affidati alla deduzione di chi vede, di anticipazioni poi sfatate, di dettagli e ammiccamenti consegnati alla libera interpretazione, fanno di Mad Men una serie perfetta in ogni minimo dettaglio. Non sbaglia mai, non sbanda mai, ci azzecca sempre per sobrietà, sarcasmo, ironia, precisione, analisi. Che dire? Probabilmente così come I Soprano e The Wire hanno segnato l’epoca delle serie TV a cavallo tra gli anni ’90 e il primo decennio del 2000, così Mad Men ha segnato la storia delle serie TV a cavallo tra il primo e il secondo decennio del 2000. Non ha rivali, per quel che mi riguarda. Ha tutto ciò che una serie TV dovrebbe avere, anzi molto di più. Perché, almeno nella concezione generale, a una serie TV non viene chiesto di insegnare e delucidare. O per lo meno, un certo snobismo vetusto attribuisce tale compito alla letteratura, ma non alle serie TV. E invece è lì che si sbagliano. Se oggi la narrazione per immagini è la nuova forma di insegnamento e apprendimento, è in Mad Men che raggiunge vette elevatissime. È certamente un’altra di quelle serie che vanno viste tutte di fila, perché il valore che è in grado di sprigionare è nelle frasi di passaggio, nei rimandi, nelle allusioni. Oltretutto, seguendo le vicende di Donald Draper, abbiamo il privilegio di stenderci sul lettino dello psicanalista e interrogarci mentre interroghiamo il suo personaggio. Crisi, ripensamenti, contraddizioni, poi contraddizioni e poi altre contraddizioni. Draper ci spiazza, ci illude, ci fa innamorare di un personaggio detestabile all’inverosimile. Ci prospetta come ammaliante il classico modello di donnaiolo, rivelandoci, poi, alla fin fine come sia proprio ciò da cui si debba prendere le distanze per (tentare) di avere una vita felice. L’uomo non uomo. L’uomo riuscito e fallito. Cosa possiamo cercare di più da una serie? Ne ho parlato qui, nella recensione dell’ultima stagione. Posso solo aggiungere che sono rimasta orfana di Mad Men e non so se riuscirò mai a trovare un’altra serie come questa. Il finale? Storico!
E questo è tutto (troppo). Ringrazio chi ha avuto la forza di arrivare fino alla fine. La sintesi non mi è amica, lo so. Buon anno a tutti!
Valeria Susini
Lola23
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