Sono ben pochi i finali considerati all’unanimità memorabili nella storia delle serie TV. Credo di poter nominare senza timore alcuno The Wire, Six Feet Under, Breaking Bad, Mad Men…. e I Soprano!
E qui mi fermo per ciò che riguarda il finale, ovviamente. Ma già questo dovrebbe essere un motivo sufficiente per indurvi a vedere una serie che è stata interpretata da più parti come una possibile versione del Grande Romanzo Americano di inizio millennio.
Ideata da David Chase, la serie è andata in onda su HBO dal 1999 al 2007, portando alla rete cable utili probabilmente mai più replicati fino all’avvento di Game of Thrones. L’ultimo episodio, intitolato Made in America e scritto dallo stesso Chase, vince nella categoria Miglior Sceneggiatura per una Serie Drammatica agli Emmy Awards; la serie vince, inoltre, il premio come Miglior Serie Drammatica e Miglior Regia. Oltre agli ambiti Emmys, Golden Globe, Peabody e SAG, la serie si guadagna fin dall’inizio il plauso quasi unanime della stampa americana: Washington Post, Los Angeles Times e, su tutti, il New York Times. Si tratta davvero di un’opera epica, in barba a tutti coloro che snobbano qualsiasi tipo di raffronto tra letteratura e serie TV.
In questa serie si parla di mafia, ma scordatevi qualsiasi riferimento figo o affascinante al mafioso tipo. Niente petti villosi incamiciati, niente addominali scolpiti, niente sorrisi smaglianti, solo panze esuberanti, camicie hawaiane, magliette della salute, salumi, panini, rutti, decadenza morale, periferie malandate, ambizioni represse e tanto tanto malessere. In sostanza il vero volto della mafia, almeno di quella mafia italo-americana che meglio ha importato il vecchio modello mafioso italiano, impastandolo al modus vivendi delle periferie sottosviluppate americane e congiungendolo all’inevitabile cambiamento dei tempi. Sì perché – più che una nuova visione del mafioso tipo – quella de I Soprano è semplicemente una visione di terza generazione, una visione evoluta, realistica e verosimile di quello che è diventato il mafioso italo-americano all’inizio degli anni 2000. Insomma, il profilo più volte tracciato da Saviano, distante miglia e miglia da vite lussuose e d’alto rango. Niente sparatorie in mezzo alle strade, bensì un profilo dismesso e più cauto (se di cautela si può parlare in mezzo a un branco di mafiosi bifolchi), uno slittamento dalla città delle mille luci, New York, a un sobborgo residenziale della Essex County, nel New Jersey. E, invece di faide ai quattro angoli di New York, troviamo uno dei più grandi business della camorra anche attuale: lo smaltimento dei rifiuti. Quasi che, metaforicamente, la serie ci volesse sottolineare come a doversi riciclare non siano solo i rifiuti della società consumistica occidentale, in costante e inarrestabile aumento, ma la stessa figura del mafioso, che dovrà adattarsi al cambiamento dei tempi – riciclarsi, appunto – pur di continuare a trarre il massimo profitto dalla cangiante società che abita. E chissà poi che tale tema dei rifiuti non sia un tema di fondo che accompagna l’intera serie e che accosti il semplice e zozzo rifiuto al sogno americano evidentemente infranto e fallito.
Altro elemento inconsueto in una tematica mafiosa è quello dell’analisi. E sì, perché Tony Soprano soffre di crisi di panico che lo inducono, parecchio mal volentieri ma anche in modo masochisticamente imperterrito, a recarsi una volta a settimana nello studio di una psicanalista tanto perplessa quanto affascinata, a vomitare le inquietudini che agitano il fondo di un animo rotto e corrotto. Tony è un mafioso sui generis, perché oltre alle caratteristiche comuni allo stereotipo entro cui si colloca, ciò che lo connota è un conflitto interiore che lo agita e che lui reprime più e più volte, fino a che quello non risale a galla stremandolo e sconvolgendolo. Le decisioni che dovrà prendere in quanto capo famiglia e malavitoso non saranno esenti da questo gravoso peso dell’anima. Non che, poi, il diffondersi della notizia delle sue sedute lo aiuti particolarmente. E così, lungo tutta la serie assistiamo a un singhiozzo, quasi un rigurgito, tra situazioni mafiose tipiche e straordinarie alterazioni di coscienza, in cui un Tony mafioso e un Tony più infantile e bambino si incontrano e si scontrano, sotto il vigile sguardo della psicanalista e al cospetto dell’algido ma presente fantasma della madre del paziente. E nel nodo della madre si sveleranno moltissime sfumature del capo dei Soprano ma, a dir la verità, sarà possibile ritrovare anche tanti aspetti contorti, e spesso negati, dei molti e comuni rapporti madre-figlio. Rapporti dove la direzione, purtroppo, non è solo quella dell’amore materno, ma può rivelarsi quella di odi e malesseri ben più contro natura.
Davvero impossibile riassumere le sei stagioni di questa serie, a meno di non cimentarsi in qualche trattato di sociologia nordamericana (tra l’altro ben al di là delle mie capacità). È però possibile dirvi che tutte le sei stagioni viste complessivamente sono il ritratto di un unico grande soggetto collettivo in costante evoluzione; un soggetto, peraltro, caratterizzato da realtà concentriche contenute le une nelle altre, come una grande matrioska: troverete la società americana, la psicoanalisi, i rapporti coniugali, la mafia, l’immigrazione, la corruzione, l’apparato istituzionale, l’amicizia, la fedeltà, l’onore, il rispetto, il tradimento, le origini, l’italo-americanità, il surrealismo e il realismo perfettamente dosati e mixati.
Per la serie sono stati scelti tutti attori italo-americani poco noti, attingendo al territorio di New York e New Jersey: lo stesso James Gandolfini, venne scelto grazie a una piccola parte in Una vita al massimo di Quentin Tarantino e Roger Avary. Le sceneggiature nascono dalle penne di un pool di scrittori della costa orientale avvezzi al gergo cameratesco della Tri-State Area (il grande agglomerato suburbano cresciuto nell’orbita di New York che include i tre stati di New York, Connecticut e New Jersey). Per una resa credibile dei codici linguistici dell’universo criminale la produzione non ha esitato inoltre a ricorrere all’aiuto di alcuni pentiti del Programma per la Protezione dei Testimoni.
L’area del surrealismo viene invece interamente affidata alle scene oniriche che campeggiano nei sonni di Tony. Altro che Paura e delirio a Las Vegas! Rimpianti, allucinazioni, strapiombi psicotici, devianze, dilemmi. Ci sarà di tutto. Andate, andate a fondo e fatevi condurre per mano in un capolavoro dai pochi concorrenti. L’opera, sì perché è un’opera, può poi piacere come no ma un dato obiettivo rimane: è un prodotto dall’altissimo valore letterario e culturale. Non a caso, tutt’oggi, I Soprano vengono studiati nei corsi universitari come quelli di Harvard, come spunto di analisi della post-modernità americana e del suo crollo di valori.
Ultimo dettaglio: la quinta e la sesta stagione della serie hanno visto come produttore e sceneggiatore anche Matthew Weiner, poi sceneggiatore di Mad Men che, con la sua abilità nel tirare i fili di una narrazione come pochi sanno fare, sa eviscerare una storia con maestria sopraffina fino a far trasparire da un’inquadratura, da un semplice dialogo, da uno sguardo, anni di psicoanalisi. Che dire, tra Chase e Weiner, non poteva che venir fuori una roba estasiante. E infatti, proprio quelle due stagioni hanno vinto ben due Emmy. Chissà che il finale ammiccante di Mad Men non abbia trovato la propria ispirazione in quello de I Soprano… E qui mi fermo.
Qui i sottotitoli in via di recupero grazie al fenomenale staff di traduttori di Italiansubs.
Attenzione: possibili SPOILER nei commenti.
Fonti: Ácoma. Rivista internazionale di studi nordamericani n.36, I soprano e gli altri.
Valeria Susini
Lola23
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