Masters of Sex

Riflessioni sulla terza stagione di Masters of Sex

Eccomi nuovamente tra voi, carissimi! E ricomincio da 3. Con Masters of Sex, la terza stagione conclusasi da poco. Be’… che dire? Ecco, un po’ mi ha spiazzata, ma poi, lo ammetto, mi ha riacciuffata.
C’è decisamente un legame affettivo con questa serie che non mi ha permesso di demolirla come certa critica ha fatto. Anche perché, onestamente, non trovo i presupposti per demolirla… al massimo criticarla un po’, ecco. La prima cosa che un po’ mi ha lasciata delusa è stato il quasi totale accantonamento delle tematiche sessuali, che sono state relegate sullo sfondo e ridotte a misero pretesto narrativo. È stato chiaro sin da subito che l’attenzione sarebbe stata centrata sull’evoluzione dei personaggi e sul loro relazionarsi.

Tutta la storia dell’indemoniato cattolico che manda la spia in avanscoperta per incastrare Bill Masters, ecco, quella sì, mi ha veramente delusa: che stupidaggine. Neanche fossimo in Mission Impossible. Mi è sembrato un pretesto studiato malissimo per incastrare e fermare il personaggio di Masters e lasciare un po’ di autonomia d’azione a Virginia, come se i narratori stessi fossero caduti vittime della frenesia che si è impossessata di Bill. No, non mi ha convinto.

Ciò che invece mi è piaciuto molto è stata l’evoluzione del personaggio di Libby, seguita poi da una sfortunatissima, ma anche un po’ auto imposta, involuzione che sfocia in una grandiosa presa di distanza da Bill e da tutto ciò che di lui l’ha irretita e condizionata per decenni. Questo, oltre a essere un contenuto di notevole valenza narrativa, mi sembra un aspetto storico-sociale di spessore, che spinge a riflettere anche la donna d’oggi… Sì, di un oggi in cui la violenza sulle donne sembra essere divenuta una moda sempre verde. Perché la violenza è troppo spesso un patto fatto da un carnefice e da una vittima che vi si sottomette silentemente, nei più svariati modi, per anni, decadi, accettandola come una missione, un destino.

E questo spinge ad analizzare ancora una volta il personaggio di Bill Masters, che, a ben vedere, pur essendo un bambino cresciuto e in opposizione al modello paterno violento e insensibile, rimane un uomo violento e aspro. Una violenza che si manifesta nei silenzi, nell’indifferenza alla sofferenza altrui, nell’assenza e nello stabilire vincoli morbosi e di dipendenza. Non si scappa: è suo padre ma in vesti differenti, con uno scarto evolutivo solo apparente. Perché la violenza non è solo menare, è uccidere, avvilire, appesantire, sfruttare, approfittare in silenzio, con gesti e pensieri.

Virginia e il nuovo eroeC’è un’altra donna, poi, che alza la testa, si disincentiva, e si ribella perfino al modello maschilista e tronfio della “carriera a tutti i costi”, ed è Virginia. Vittima anche lei di non so quale fascino virile esercitato da Masters, ma finalmente sembra in procinto di staccarsene. Una storia un po’ smielata con il nuovo uomo di turno che giunge ad aprirle gli occhi. Ma non va bene, non va bene neanche questa volta, a mio parere. È come se Virginia non possa mai salvarsi da sola, perché priva di un’autonomia decisionale personale e privata. Non so se attribuire questo aspetto a un rovinoso intreccio narrativo o a una puntuale scelta di dipingere il tipo di donna che non sa mai stare sola e che per trarre energia per tirare avanti deve sempre appoggiarsi alla figura di un uomo eroico e onnipotente. Se fosse così, anche questo sarebbe un interessante spunto di riflessione. Dopo tutto, quelli descritti sono i decenni in cui la donna si divincola tra il modello femminile subalterno e il modello autonomo e indipendente, che poi nei decenni successivi si è solo trasformato in un profilo di donna oberata da impegni familiari e professionali e surclassata nei percorsi di carriera.

Il personaggio di Masters si è troppo rapidamente trasformato da un uomo strafottente e insicuro a un uomo insicuro e basta. La trasformazione è stata irruenta, sebbene la narrazione ci abbia raccontato che è trascorso un decennio dal primo frame in cui abbiamo visto Bill Masters. Ma non convince, lo stesso.

Qualche cenno di merito va all’attenzione dedicata all’omosessualità, tanto maschile che femminile. Ma troppo poca, onestamente, per poter assumere un rilievo.

Insomma, tirando le somme su questa terza stagione, posso sicuramente dirvi che andrò avanti fino alla fine (l’ho fatto per Dexter, posso certamente farlo per prodotti ben più meritevoli). Ma di certo mi rimangio qualsiasi accostamento avessi fatto per le stagioni precedenti a Mad Men. No, non ci siamo. Non se ne parla proprio. Ci sono stati dei picchi, è vero, che mi hanno condotta a pensare a un accostamento, ma questa terza stagione ha dimostrato che non è questo il caso. I mostri sacri lasciamoli lì, sull’Olimpo delle serie TV.

Di certo, però, non mi sento di smontare questa serie e riportarla nella cerchia delle serie TV massificate o “commerciali”. No, neanche questo è vero. È stata un’ottima serie, la terza stagione è stata discreta, con punte di insufficienza. Ma pazienza… si spera solo che per mere ragioni di audience e di soldi non si vada troppo oltre perdendo il senso dell’intera serie. Anche perché: il sesso, dov’è finito? Abbiamo imparato tutto ciò che c’era da imparare? Bene. Allora nelle seconda stagione si era passati alla psicologia del sesso e delle relazioni. Poi la terza è stata una lente di ingrandimento sugli sviluppi immaginari delle relazioni tra due personaggi storici. E adesso? Cosa ci attende per la quarta stagione? Gli do fiducia, ma con un po’ di puzza sotto il naso. E voi? Che ne pensate? Che sensazioni avete avuto? Diteci la vostra!

Valeria Susini

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Lola23

Lunatica, incasinata, perennemente indecisa, una ne faccio e mille ne penso. Quattro elementi chiave della mia vita: Famiglia, Mare, Etna, Scrittura. Le serie TV sono il Quinto Elemento, una vera e propria dipendenza, meglio farsene una ragione. Le mie preferite? Non chiedetemelo! Vabbè, ve ne dico 3: Six Feet Under, The Wire, Treme... Mad Men! Ah sono 4... Ve l'ho già detto che non so decidere?
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