American Horror Story

American Horror Story: il bambino prodigio

Basta dare un’occhiata alla locandina della serie per capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di speciale. Se ancora non ci avete dato un’occhiata, fatelo (ma lontano dai pasti).

Dai titoli di coda alla sigla iniziale, passando per la colonna sonora e, soprattutto, montaggio e regia, è difficile trovare un solo aspetto del pilota che non sia curato e generi una sensazione di disorientamento nello spettatore. Il primo aspetto affascinante è proprio questo: la serie ti cala in un mondo d’incubo da cui si esce a fatica, a metà fra il dramma familiare e i più fortunati topos horror degli ultimi trent’anni: la cantina, i gemellini, i feti in formalina. Con alcuni tocchi di genialità: la governante dall’età variabile, l’uomo sadomaso.

E' pur sempre FX

Il montaggio, dicevo, è sincopato, comprime i tempi e confonde sogno, follia e realtà, predilige il non-vedere, come da tradizione thriller, eppure lascia ben poco all’immaginazione, il sangue abbonda e anche il sesso è prepotente, lasciando allo spettatore decidere se la perversione è ordinaria o sintomo di una minaccia più concreta. Il coraggio della serie emerge anche dalla scelta di una attrice con la sindrome di Down (credo sia la prima volta in tv) e più in generale di un approccio abbastanza diretto all’instabilità mentale, per cui ogni persona ha la sua follia, piccola o grande, devastante o meno.

Recitazione e casting completano la sinfonia dell’orrore: Dylan McDermott molto a suo agio nel ruolo del marito imperfetto, gelido durante l’insonnia, incazzato a dovere dopo 1 anno di astinenza da sesso (chissà che tipo di training ha fatto per entrare nel personaggio). Connie Britton meno sfavillante, anche se tocco di insicurezza e porcaggine li lascia pure lei; le due veterane del cast, Jessica Lange e Frances Conroy, in grande spolvero, a suggerire con il loro feud fra anziane la miseria di una casata decaduta.

C’è qualcosa che potrebbe non piacervi della serie? Certo. La storyline sincopata può essere fastidiosa da seguire, la casa può sembrare “troppo” infestata, e anche il pilot ha forse messo troppa carne al fuoco (e sarebbe bene rallentasse i ritmi, per non stufare lo spettatore dopo pochi episodi). Alcune scene e personaggi sono un po’ logori (come il giovane disadattato, o la cantina degli orrori) e sta agli sceneggiatori disegnare la personalità con maggiore precisione. Ma insomma: se guardate True Blood, se avete recuperato Twin Peaks, se siete fan del genere horror o semplicemente vi piace la tv di qualità, dategli una chance. Bentornato, Ryan Muphy.

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