Il 2017 è stato un anno marcatamente femminile, sia dal punto di vista sociale che, di conseguenza, seriale. L’hashtag #metoo è stato un potente catalizzatore di coscienze femminili e maschili, e questo è un gran bel segnale. Ma visto che non posso definirmi una femminista oltranzista, la mia classifica non è tutta femminile; è semplicemente basata sul riconoscimento, secondo i miei parametri e gusti, della qualità. E quindi, spazio anche agli uomini!
Come ogni anno, stilare una top 10 è davvero un trauma, perché mi sembra di tradire sempre qualche amica fedele. Si è da poco conclusa, ad esempio, la terza stagione di Gomorra, che nella mia lista è rimasta fuori, sia perché non mi ha coinvolta come gli anni passati, sia perché, a conti fatti, non c’era posto; rimane, tuttavia, un prodotto di qualità.
Fuori sono rimaste anche altre serie a cui, però, riservo una menzione speciale: Master of None, per essere graziosa, frizzante, soave, attuale; per l’Italia, il mio premio va a Suburra per regia, suspense e recitazione. Ci sono poi i recuperi che mi riprometto, tra cui Mindhunter, She’s gotta have it, Smilf, American Gods, e altre ancora.
Adesso, bando alle ciance ed ecco la mia classifica. Vi auguro un buon anno pieno di successi e di serie TV!
10. Top of the Lake (Sundance TV).
In questo 2017 appena trascorso, Elisabeth Moss esplode in tutto il suo talento, grazie all’occhio e alla mano di Jane Campion, regalandoci una bella serie TV giunta alla sua seconda stagione, e un capolavoro, che troveremo più in là. In Top of the Lake, scritto da Jane Campion e Gerard Lee, troviamo delle atmosfere tetre, plumbee e ambigue con dei saltuari tratti tragicomici che spezzano la serietà della narrazione e spiazzano lo spettatore. La nota tragicomica è affidata Gwendoline Christie che con il suo personaggio strampalato e allampanato affianca magnificamente la Moss. Nicole Kidman ci offre un’altra profonda interpretazione del più sofferto rapporto genitoriale, quello madre-figlia. L’indagine narrata è avvincente, anche se il finale lascia davvero perplessi. Centro della narrazione sono le donne: lavoratrici, amanti, prostitute, madri, lesbiche, amate, sfruttate, illuse, raggirate. Il profilo femminile che ne esce fuori è variegato, è quello di un universo frastagliato, complesso, tormentato, mai definibile completamente.
9. Alias Grace (Netflix).
Tratta dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood, la miniserie disegna l’enigmatico profilo di una donna accusata di un duplice omicidio. Anche qui l’universo mentale e sociale femminile è indagato nei suoi diversi aspetti, descritto nelle sue peculiarità tanto ottocentesche quanto eterne ed immutabili. La donna asservita, disconfermata, subalterna, passiva o strega se troppo intelligente; tutti stereotipi che hanno attraversato la storia della donna e delle sue infinite difficoltà esistenziali. La narrazione crea suspense, lascia sospesi, trascinando da un episodio all’altro. Ho trovato meravigliose le citazioni poetiche poste ad inizio di ogni episodio, fra tutte la prima, una poesia di Emily Dickinson sul peggiore dei nemici interiori, l’io.
8. Peaky Blinders (BBC Two).
Il manuale delle serie TV sulla mala vita, così definirei Peaky Blinders. Alta tensione, introspezione psicologica, perfetta delineazione di ogni personaggio del clan, accenti affascinanti, colonna sonora perfettamente in contrasto con l’ambientazione anni ’20, regia e fotografia eccelse… (e l’uomo più bello di tutti i tempi, almeno per me, Cillian Murphy). Questa è la tipica serie TV in cui il crimine viene romanzato e si finisce per prendere le parti del cattivo protagonista (tutto il contrario di Gomorra, insomma); per il resto, però, di tipico non ha un bel niente. Ma va bene così, proprio perché è un intento manifesto, quello di mitizzare il criminale. Si sorride delle malefatte di Thomas Shelby, si accetta il suo stile ribelle, la sua perfidia calcolatrice, anzi la si arriva ad ammirare. Il quadro storico ritratto, poi, è affascinante, nel pieno degli intrighi della corona britannica, delle lotte sindacali, della lotta per la parità tra generi (l’Inghilterrsa è sempre stata avanti di decenni rispetto all’Italia). L’intero cast è strabiliante nelle sue interpretazioni, ma se devo individuare i miei preferiti, ebbene sono tre: Tommy (Cillian Murphy) con il suo tormento pallido e inconfessato, Arthur (Paul Anderson) con la sua follia mal sedata e con il suo senso della giustizia totalmente squilibrato, e Polly (Helen McCrory) con il suo fascino da capofamiglia indomita, da megera inarrestabile e determinata. Una serie da vedere, ma soprattutto da rivedere tutta di fila, dalla prima alla quarta stagione, nell’attesa che questo 2018 ci regali la quinta stagione.
7. The Deuce (HBO).
David Simon è una garanzia, come negarlo? Dopo Treme, il creatore di The Wire ci regala un ritratto della New York anni ’70 alla scoperta quasi documentaristica di una realtà a me quasi del tutto sconosciuta: la New York City mecca della prostituzione. Ragazze delle più sperdute province americane giungono a NYC con l’intento preciso di prostituirsi puntando ad arrivare chissà dove, magari, nella migliore delle ipotesi, su qualche passerella, nella peggiore in un film porno. The Deuce, come sempre fa Simon, entra dentro le realtà di strada, il suo gergo, le sue usanze, le sue mille contraddizioni, indaga le logiche della corruzione e del malaffare, il tutto con sullo sfondo la metropoli patinata ben lontana dal ghetto dei negletti. Simon si è sempre occupato di ghetti, in questo caso, però, ci narra la periferia umana, l’esclusione e l’abuso degli ultimi, a due metri dal quel centro storico di New York abitato dall’upper class che per svagarsi cambia quartiere e va a sfogare i propri peggiori istinti sugli ultimi. Una serie vera, bella e amara. Ps. Grandiosa interpretazione di Maggie Gyllenhaal.
6. Transparent (Amazon).
Jill Soloway non smette di dare il suo meglio con questa splendida creazione che racconta lo sfacelo senza confini di una famiglia sconquassata da ripetute crisi di identità sessuale e generale. La quarta stagione ci porta per gran parte del tempo in Israele, o per essere più onesti, in Palestina. La confusione e la sovrapposizione di orientamenti sessuali e identitari si intreccia e confonde con la confusione straziante dei confini pseudo geografici tra Palestina e Israele. La striscia di Gaza, i controlli, le perquisizioni, la sorveglianza, sembrano fare da eco a quei controlli, e a quelle rigide regole sociali che presidiano i comportamenti sessuali di tutti noi. La diffidenza verso chi non è come noi, la netta delimitazione tra noi e loro, l’aggressività verso chi non condivide i nostri valori. E poi la famiglia! Tema centrale di Transparent: la predeterminazione involontaria dei disastri delle vite dei figli data dal codice genetico del modello genitoriale. Una sentenza inappellabile, puntuale: dai casini dei genitori puntualmente discendono quelli dei figli, anche se a scoppio ritardato. Narrazione ineccepibile, tematiche scottanti e profonde sulle relazioni liquide della postmodernità, colonna sonora toccante, fotografia e regia bellissime. Una serie spettacolare con un cast ineccepibile. Qui un approfondimento.
La mia top five è tutta femminile. Il 2017 è stato un anno particolarmente intenso dal punto di vista dell’attivismo femminile, della presa di coscienza (più o meno) collettiva dei problemi attuali delle donne, del loro collocarsi in società e in famiglia. Il panorama seriale è stato il luogo elettivo di tale exploit.
5. I love Dick (Amazon).
Una miniserie Amazon tratta dall’omonimo libro scritto da Chris Kraus, edito nel 1997 e realizzata da Jill Soloway. Spiegare di cosa parli questa serie mi risulta particolarmente complicato, perché i fatti raccontati sono solo un pretesto narrativo per parlare della Donna. Chris, interpretata da una grandissima Kathryn Hahn è un’intellettuale e cineasta, sposata con Sylvère, che accompagna in Texas per una serie di seminari. Arrivata in Texas, Chris si infatua di Dick, uno pseudo artista, alquanto scialbo, sormontato da sette quintali di prosopopea e con l’unico vantaggio di essere bono (Dick è infatti interpretato da Kevin Bacon). L’infatuazione per Dick diventa rapidamente, episodio dopo episodio, una vera e propria ossessione, che prende le mosse da una fantasia coniugale usata a scopo erotico da Chris e Sylvère, e si trasforma poi in stalking, che raggiunge il suo apice con una serie di lettere che Chris indirizza a Dick. Queste lettere sono lo sfogo e la ribellione di una donna che sembrerebbe parlare per tutte le donne: chi l’ha detto che devo aspettare la prima mossa? Chi l’ha detto che devo essere composta, desiderabile, pulita, ordinata, fedele ma appetibile, affascinante, brillante, preparata, sexy? Tu, uomo, non puoi essere il mio pezzo di carne (non a caso il titolo I love Dick)? Non puoi essere il mio oggetto del desiderio, tu, maschio, con tutti i tuoi cliché: il cappello da cowboy, gli addominali scolpiti, gli stivaloni, le chiappe sode, i fianchi stretti, la barba incolta? La metafora di Chris è quella di una graduale emancipazione della donna da tutte le manipolazioni, i legacci, le aspettative maschili, gran parte delle quali, tuttavia, spesso sono state introiettate dalle donne stesse: dalla coppia aperta al sesso libero; generalmente trovate maschili accettate dalle donne con spavalderia per fingere una sciocca emancipazione. I love Dick è un grosso vaffanculo agli uomini insulsi e manipolatori, e anche a tutte quelle donne che, spesso, non parlano di assorbenti davanti agli uomini per non offenderne la sensibilità.
4. The Marvelous Mrs Maisel (Amazon).
La serie Amazon, interpretata dalla strepitosa Rachel Brosnahan, mi ha letteralmente conquistata. Anni ‘50, New York, Upper West Side, comunità ebraica ricca, una donna, bella, giovane, sposata, con due figli, brillante e super divertente. La creatrice della serie, Amy Sherman-Palladino, è riuscita a raccontare l’emancipazione della donna narrando il mondo della comicità e dello stand up comedy, presidio quasi assoluto degli uomini. La figura della meravigliosa Mrs Maisel, comincia ad emergere in maniera autonoma e indipendente proprio a partire da quel Mrs., dal suo essere sposata, cioè. Lei è la meravigliosa sostenitrice di suo marito, cui dedica tutte le proprie risorse di pazienza e humor brillante per supportare il suo desiderio di diventare un comico. Senonché, la vera comica è lei. Ciò che mi ha colpita moltissimo di questa serie è l’indisponibilità del marito ad accettare il talento della moglie in ciò che proprio lui avrebbe tanto desiderare fare. Lui pecca, lui si redime, lui si impegna a fondo per mantenere economicamente la donna che si accorge di aver sempre amato, ma mai, per un attimo, si è interrogato sul vero volto di sua moglie, su chi fosse, oltre che, appunto, una moglie e una cosa da riconquistare. Il desiderio della donna, lungo questa narrazione, viene ignorato e disconosciuto dalla maggior parte dei protagonisti maschili. Solo il padre riuscirà pian piano a vedere la figlia così com’è, spogliata delle aspettative, dei ruoli prefissati, delle etichette. Ma il marito è la figura che più mi fa arrabbiare: un uomo distrutto dal talento di sua moglie, roso dalla delusione immane di aver visto con i propri occhi la bravura di sua moglie… una donna e sua moglie! Ma come si permette? I progetti e i desideri degli uomini escludevano completamente quelli delle donne che pure erano considerate parte integrante del quadretto da mettere in piedi per dichiarare al mondo la propria felicità (ma siamo sicuri che non sia ancora, spesso, così?). La meravigliosa Mrs Maisel ci dimostra che la donna, da soprammobile e scimmietta ammaestrata, può trasformarsi in un portento travolgente, una volta individuate le proprie capacità.
3. Girls (HBO).
Hannah ha mandato a quel paese se stessa ed è cresciuta. Fine di una serie meravigliosa in cui attraverso amicizie, chiusure, disillusioni, separazioni, abbiamo assistito alla maturazione di un’identità sociale e di genere: donne ci si nasce, ma anche ci si diventa, sprofondando spesso in un pozzo, come diceva Natalia Ginzburg, ma dal quale si esce diverse, più forti o più deboli, ma nuovamente sui propri piedi. Girls, a mio parere, è una serie che interpreta al contempo i disagi della postmodernità e l’identità femminile con tutti i suoi casini unici e inimitabili, senza peli sulla lingua, senza edulcorazioni. Lena Dunham ha l’indubbio merito di essere una grande donna, regista, scrittrice e interprete, la prima, a mio modo di vedere, che abbia narrato le contraddizioni insanabili dell’essere donne negli anni 2000 in una città folle e schizofrenica perfetta rappresentante del non senso postmoderno. Caduta delle certezze, disgregazione dei legami relazionali, famiglie nucleari spesso smembrate, distacco emotivo, perenne ricerca di rifugi sentimentali, fame d’affetto, finzione di disinteresse, precarietà lavorativa, accelerazione temporale, restrizione spaziale. Troviamo tutto questo in una serie magistrale che termina con la maturata capacità di non autoanalizzarsi compulsivamente e lasciarsi andare saltando nel vuoto, accettando la vita com’è, con tutto il suo essere contingente, lontana dalle caratterizzazioni che le abbiamo attribuito nelle nostre fantasie. E quel vuoto diventa una gravidanza, la capacità, cioè, di non chiedere più, ma di accogliere e dare. Hannah è cresciuta e con lei anche noi. Qui un approfondimento.
2. Big Little Lies (HBO).
Il trailer più sbagliato di sempre, perché non avrei dato due lire a quella che si è rivelata una delle più belle serie mai viste, sebbene impiantata sul più classico degli stereotipi: quattro donne in una cittadina ricchissima, enclave dell’alta società californiana, casalinghe o mega professioniste, annoiate e incazzate, ognuna con un segreto e coinvolte chissà come in un misterioso omicidio. E invece… ciò che il creatore David E. Kelly intende fare è gettare luce nelle crepe delle apparenze e far emergere le verità universali di certi rapporti come quello madre-figlio, marito-moglie, famiglia-società. Si riflette sulle contraddizioni del sesso, sul concetto di appagamento, sulla violenza coniugale insospettabile e sull’effetto devastante che questa inevitabilmente ha sui figli. L’encomiabile interpretazione di Nicole Kidman ha reso vivido il senso malato e autolesionistico tipico delle relazioni violente. Il tema, dunque, è la donna, ancora una volta, sfaccettato, complesso, problematico, che prende le vesti della maternità, della relazione d’amicizia, della competitività, del senso di inadeguatezza, della paura. Emerge forte un’analisi sulla spietatezza che spesso caratterizza il rapporto tra le donne stesse che, invece di farsi forza l’un l’altra, di allearsi, facendo proprie dinamiche e modalità comunicative tipiche maschili, si scagliano una contro l’atra, demolendosi con ineguagliabile ferocia. Il finale, oltre che essere totalmente inaspettato e insospettabile, ci regala una bellissima perla di saggezza: attenti alle donne, perché insieme sono una forza inesauribile. Qui un approfondimento.
1. The Handmaid’s Tale (Hulu).
Oltre che essere la mia serie preferita del 2017, è diventata una delle mie serie preferite di sempre. Sconcertante, affilata, struggente, ansiogena, coinvolgente, sadica, sarcastica. Il tutto reso possibile dalla mente geniale di Margaret Atwood e dall’interpretazione senza eguali di Elisabeth Moss. Ciò che sconcerta è la data di pubblicazione del libro, 1985, e quella di realizzazione della serie, 2017, anno in cui Trump diviene Presidente degli USA, come nei peggiori romanzi distopici o nelle migliori barzellette. Un “uomo” che disprezza le donne, ritendendole nient’altro che un buco. E buco è la donna in The Handmaid’s Tale, in cui un mondo ridottosi quasi totalmente sterile, vede prendere il sopravvento, negli States, di un gruppo di fanatici cattolici che asserve tutte le donne americane rimaste feconde, trasformandole in ancelle da recludere nelle case delle ricche e sterili coppie di gerarchi, e da stuprare durante i giorni dell’ovulazione al fine di far proseguire il genere umano (o meglio, la loro stirpe, quella eletta). Ma buco è considerata anche la donna sterile, proprio in qualità della sua “incapacità” di procreare. Oggettivata a buco infecondo, viene abbandonata e dimenticata come donna da desiderare e corpo desiderante; il marito non fa più sesso con la moglie, risparmiando (almeno in apparenza) le energie solo per l’accoppiamento con l’ancella. Così la donna sterile rimane un buco infecondo ma anche una presenza svuotata della propria identità sessuale. Ed è questo uno dei tratti più interessanti della serie: l’odio spietato che si si scatena tra le donne stesse, che in rarissimi momenti di verità disarmante sono mosse da flebili istinti di complicità, in quanto vittime di uno stesso meccanismo maschile onnipotente, che ha destituito l’una dal proprio ruolo materno ed erotico, e ha investito l’altra di un ruolo di mero contenitore. Donna è l’ancella, donna è la moglie sterile che a sua volta schiavizza l’ancella, donne sono le “zie” che addestrano e riprogrammano le ancelle, e donne sono coloro che non assoggettandosi al sistema, sono state relegate nell’unico ruolo rimasto: quello della prostituta. L’uomo gerarca della serie tv è un uomo famelico, assetato di sesso e potere, tronfio, stupido, bigotto e tracotante, un uomo che finalmente sembra aver messo a frutto il più recondito dei propri desideri: fare della donna un mero oggetto di appagamento di necessità e voglie, una proprietà. L’ancella, infatti, viene privata del nome e viene chiamata con il patronimico del padrone di casa, nel caso della protagonista, June, verrà ribattezzata con il nome di Offred (letteralmente “di Fred”), che significa anche “offerta”. La donna è data, scambiata, rinominata, abusata, ingravidata. Tutto ciò che di attivo è tipico della persona e della donna è convertito in passivo. La maternità, grande tema centrale della narrazione (e della vita di ogni donna, sia madre che non) diventa finalmente presidio dellafolle macchinazione maschile.C’è da dire, però, che esistono anche altri tipi di uomini, non dispotici, non megalomani e possessivi. Tuttavia, sembrano avere un ruolo sempre secondario, tanto nel bene quanto nel male, rispetto alle donne e alle madri. Margaret Atwood, che ha supervisionato la creazione della serie, nelle recenti interviste ha dichiarato che la società distopica che ha creato mette in scena un mix di follie e perversioni che, però, sono realmente accadute lungo l’arco della storia dell’umanità, nei vari angoli del mondo: la schiavitù, il divieto di leggere e scrivere, il furore religioso ecc. Una serie profonda, amara e filosofica che non si può che divorare.
Valeria Susini
Lola23
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