It has to be joyful, effortless, fun, TV defeats it’s own purpose when it’s pushing an agenda, or trying to defeat other TV or being proud or ashamed of itself for existing. It’s TV, it’s comfort.
I fumi della vernice del paintball si sono diradati. La lava si è raffreddata sul pavimento. L’ennesimo ballo nella mensa del Greendale Community College è stato archiviato. In sintesi, la sesta stagione di Community è finita. Se non avete ancora visto l’episodio non continuate perché troverete SPOILER.
Dopo aver visto Emotional Consequences of Broadcast Television sono rimasto qualche secondo ad osservare lo schermo e la scritta #andamovie. Nelle ore successive ho cominciato a sentirmi come Jeff lungo quasi l’intera durata della serie, ossia combattuto. Ho cominciato a pensare all’eventuale film e un diavoletto, presumibilmente agghindato come la “real Annie” dell’episodio, mi sussurrava all’orecchio cercando di convincermi a desiderarne ancora. Mi sono ritrovato in quella situazione tipica degli addicted seriali, disposti a un’ultima – magari non necessaria – dose pur di non abbandonare quei luoghi e personaggi che abbiamo imparato ad amare e che nel corso degli anni ci sono diventati così familiari. Dall’altra parte della spalla invece si trovava un angioletto con le sembianze di Abed, profondo conoscitore delle dinamiche non solo del mondo della televisione ma soprattutto della narrativa, di cosa permette a una storia di funzionare. E questo angioletto continuava ad insistere, #sixseasonsandamovie, ma è davvero necessario? In passato la risposta sarebbe stata una e inequivocabilmente affermativa ma oggi le cose sono cambiate. Il motto, menzionato per la prima volta da Abed in Paradigms of Human Memory, ventunesimo episodio della seconda stagione, in riferimento a The Cape sfortunata e terribile serie NBC, è passato dall’essere la solita battuta autoreferenziale così tipica di Community, a trasformarsi in slogan ufficiale della serie, un mantra da ripetere allo sfinimento. Nel corso degli anni è stato sventolato ogni qualvolta la serie si è trovata alle porte dell’inferno della cancellazione e sono certo che abbia aiutato la causa di Community, dimostrando l’amore incondizionato dei fan. Al termine della quarta stagione, quella della “fuga di gas” per intenderci, proseguire era un imperativo, necessario a non lasciarci come ricordo finale della serie la terribile stagione del duo David Guarascio e Moses Port. Al termine della quinta stagione il traguardo della fatidica sesta era talmente vicino che sarebbe stato un peccato capitale fermarsi a pochi metri dalla linea. Il naturale proseguimento di questa vicenda sarebbe appunto il film. Ma non ne sono più così sicuro. Arriverebbe per soddisfare delle esigenze narrative e di sviluppo dei personaggi o per necessità di completamento della auto-profezia di Abed? Da una parte sarebbe un peccato non realizzare ciò che ha permesso a Dan Harmon, al cast e ai fan di mantenere in vita una serie che in un altro contesto e in un’altra epoca non avrebbe mai superato nemmeno la prima stagione. Dall’altra parte con un finale così emozionante, divertente e autoironico, un film cosa potrebbe aggiungere alla nostra esperienza “communitaria”? Al contrario ci sarebbe sempre il rischio di danneggiarne l’eredità, quasi perfetta, che chiude su una nota elevatissima una stagione caotica, apparentemente un po’ casuale, tanto diversa dal Community delle prime tre stagioni, ma sempre divertente.
Ma veniamo al finale. La premessa è molto semplice e tipicamente meta: il gruppo si riunisce per festeggiare la fine dell’anno accademico e si ritrova a riflettere sulle chance che il gruppo si ritrovi ancora tutto assieme per il successivo anno accademico al Greendale Community College utilizzando la metafora della stagione televisiva. Le notizie per cui Annie (Alison Brie) è stata ammessa ad un prestigioso tirocinio alla sede dell’FBI di Quantico e che invece Abed (Danni Pudi) partirà alla volta di Hollywood dove ha trovato lavoro come dirigente televisivo, fanno piombare Jeff (Joel McHale) in un pozzo di confusione e disperazione e permettono alla serie di toccare direttamente i principali leit-motiv portati avanti nelle ultime stagioni: la crescita e il cambiamento. Sono tematiche imprescindibili in una serie ad ambientazione scolastica in quanto veri e propri pilastri del genere. Nel corso degli anni Harmon si è trovato davanti al bivio tra la necessità di superare il setting del college e la riluttanza a cambiare una formula consolidata. Per questo motivo corsi normalmente della durata di due anni sono finiti per durare più del doppio, la prima nuova esperienza di Jeff nella “vita reale” è fallita miseramente e sia lui che gli altri sono ripiombati nella familiarità quasi paterna (o materna?) del Dean e della study room. Il marchio di fabbrica di questa serie è la possibilità di analizzare quasi ogni scena sulla base di diversi livelli narrativi, e le scene più importanti di questo finale non fanno eccezione. In alcune scene dell’episodio ritroviamo gli stilemi narrativi della storia di formazione, tanto per quanto riguarda i personaggi che per la serie stessa. La scena sul conflitto gioventù-maturità tra Jeff e Annie; il discorso di Abed per cui la TV dovrebbe essere gioiosa, spensierata e divertente e che tradisce sé stessa quando cade nell’autocompiacimento; e l’abbraccio finale tra Jeff e Abed, rappresentano perfettamente questo conflitto interiore che coinvolge serie e personaggi. Ma esattamente come Jeff è riuscito finalmente ad accettare che Annie sia destinata a grandi cose e a non passare la sua vita a far da balia a un avvocato che ha paura di invecchiare, anche la serie ha deciso di superare il suo attaccamento a Greendale e, non a caso, la scena finale appartiene non alla study room ma al bar di Britta (Gillian Jacobs). Con le parole this is the show cala il sipario sulle vicende di Jeff, Annie, Abed, Britta e il resto del gruppo, un brindisi a questa nuova consapevolezza. Quello che viene dopo è una sorta di testamento personale e artistico di Dan Harmon, che solo in maniera incidentale ha a che vedere con la serie. Il trasferimento su Yahoo ha permesso ad Harmon di rimescolare un minimo le carte del format di Community, ottenendo un maggiore minutaggio in parte sfruttato per allungare le tag finali, trasformate in chiusure spesso bizzarre e inquietanti, una sorta di manifesto della diversità di Community rispetto a tutto il resto del mondo della comedy. Nel libretto informativo al gioco da tavolo su Community che fa da premessa alla tag, Harmon riesce a fare autocritica sull’autoreferenzialità della serie e sull’eccessivo affidamento a episodi tematici; ad affondare un colpo al sistema di rilevamento degli ascolti televisivi americani; a prendere in giro altri showrunner (vedi Chuck Lorre) e ad ammettere quei difetti di personalità che lo rendono una persona con cui a tratti è difficile lavorare. Non avrei potuto immaginare un epilogo migliore o più onesto, per una serie come Community, che della coerenza con sé stessi ha fatto la propria bandiera.
Torniamo al conflitto interno di cui vi ho parlato all’inizio. Da una parte vorrei rivedere ancora una volta lo study group e passare un’ora e mezza a sentire di come Britta sia sempre la peggiore o di come Chang (Ken Jeong) continui ad utilizzare il suo nome per giochi di parole che coinvolgano esclusivamente la parola Chang. Ma non è strettamente necessario. Alcuni personaggi non hanno avuto particolari momenti sotto i riflettori ma Elroy e Frankie sono arrivati da troppo poco tempo per meritare tanta attenzione mentre Britta, il Dean (Jim Rash) e Chang hanno perso (o non hanno mai avuto, nel caso di Chang) centralità a livello narrativo, guadagnandone in termini di comicità pura. Il mio lato romantico vorrebbe vedere Jeff ed Annie ritrovarsi e magari provare a stare assieme senza tutto il bagaglio emotivo che in precedenza li avrebbe condannati per sempre. Ma immaginare Abed ed Annie fuori a conquistare il mondo, e Jeff, Britta e gli altri a vivere la propria vita con la consapevolezza e l’accettazione di essere quello che si è, non mi sembra un pessimo modo di salutare i propri personaggi preferiti. Nei prossimi mesi sapremo in che modo Harmon, anch’egli combattuto di fronte all’idea di rimettersi al lavoro su quello che è il romanzo della sua vita, risolverà questo conflitto. Il consiglio che posso dargli è quello di lasciar riposare in pace Greendale e il gruppo di studio. Ma del resto, dieci giorni fa mi ero convinto a non scrivere nulla sul finale di Community e invece eccomi qui a proporvi le mie opinioni, cosa posso capirne?
PENSIERI SPARSI
Se dovessimo metterci a cercare il momento più divertente dell’episodio scegliereste la presentazione della settima stagione di Britta o “I farted on the fourth one, it’s an inside joke” di Chang, in riferimento alla quarta stagione?
Corro a registrare il marchio Nippledippers. Nome perfetto per una start-up.
LIZARDS, FIRE HIDRANT, OBAMA, CHANG! (La mente di Abed è un posto meraviglioso)
Dopo Jeff e il suo problema con i pettorali di Chris Pratt, ecco il commento sui “flavorless, unremarkable Marvel movies”. Che dopo la Sony Dan Harmon stia cercando di farsi un nuovo potente nemico?
Nota di merito per Frankie (Paget Brewster) ed Elroy (Keith David). Come avvenne lo scorso anno con l’Hickey di Jonathan Banks, dopo un periodo di assestamento i due nuovi arrivati si sono amalgamati bene con il resto del cast nonostante le giustificazioni narrative per la loro esistenza fossero tanto sottili da essere praticamente inesistenti. Non era facile sopravvivere agli addii di Donald Glover, Yvette Nicole Brown e Chevy Chase eppure, nonostante diversi incidenti di percorso, Harmon ce l’ha fatta.
Anche voi la pensate come me oppure credete che ci sia spazio per il completamento della profezia di Abed e quindi rimarrete in attesa del film di Community? Fatecelo sapere nella sezione commenti.
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