Sette anni per sette stagioni, la contrapposizione tra individuo e professione, un uomo che cade.
Questa è per me la sintesi per argomenti chiave di Mad Men, una delle migliori serie TV che i miei occhi abbiano avuto l’onore di vedere. Sono di parte, perché è una delle mie serie preferite e non cercherò di farvi una critica obiettiva, perché onestamente non ne sarei capace, e anche perché obiettivamente secondo me è una serie perfetta, senza sbavature, errori o lacune. Avviso che l’articolo contiene SPOILER dal finale della serie, non continuate se non l’avete ancora visto. In sette anni Mad Men ci ha raccontato l’evoluzione di un’epoca partendo dall’evoluzione di un uomo, che poi in realtà sono due: Dick Withman e Donald Draper, il provinciale e il cittadino, il povero e il ricco, l’antico e il moderno, lo sfortunato e quello baciato da fortuna, successo e donne. E questa narrazione cesellata, delicata, ironica e onirica ci ha portato a vedere l’abbaglio dell’intera epoca moderna e post moderna: l’aver confuso l’uomo con la professione, l’aver scambiato il lavoro con la realizzazione personale. “Loro” ci hanno venduto Coca Cola e Chevrolet, noi ci siamo venduti l’anima. I meravigliosi uffici, le segretarie truccatissime, la creatività dilagante, i grandi marchi, le competizioni, il successo, le donne, le presentazioni, i trionfi: tutto fumo e niente arrosto, specchietti per le allodole. Macchine per spegnere la persona che si cela dietro il lavoratore.
Una serie apparentemente fondata sul mito del lavoro, invece, finisce per demolirlo e per commiserare pure quei personaggi che per amor proprio e della propria immagine professionale perdono tutto o rinunciano a quel che avrebbero potuto avere. Peggy Olson, per esempio. Ci ritroviamo a tifare per lei, per la sua scalata professionale contro una società zeppa di luridi maschilisti, la amiamo, simpatizziamo per i suoi tratti ruvidi e cinici, e alla fine, insieme a lei, ci ritroviamo sul podio, spossati e felici, ma soli. Ed è lì la svolta narrativa, che viene incardinata da quella telefonata che sembra popolata da parole confuse, tra Don e Peggy, e che invece semina e fertilizza, prepara una svolta per entrambi. Don si confessa, e per farlo approfitta della necessaria distanza che uno strumento moderno per eccellenza come il telefono può garantire. Accenna al suo furto d’identità, al suo fallimento come padre, e infine all’aver svuotato l’identità stessa di cui si è appropriato, non avendo saputo trarne il giusto vantaggio. Peggy, per reazione, terminando la telefonata con Don, ne inizia un’altra, approfittando anche lei della necessaria e comoda distanza che il telefono garantisce, e parla con Stan, che a sua volta la accusa di rendere possibile un vero contatto solamente al telefono.
E lì Peggy svolta, e per fortuna lo fa con qualche decennio di anticipo rispetto a Don, e comprende, si mette in ascolto di Stan e di se stessa, realizzando che dietro scartoffie e disegni, il vero risultato che per anni aveva coltivato era una vera relazione umana. Se per anni abbiamo tifato per il successo lavorativo di Peggy, adesso ci rendiamo conto che non era nulla, che non bastava, che era un palliativo o, meglio, un surrogato. E questo non per la fame del lieto fine o delle smancerie, ma perché capiamo, portati per mano da tutti gli autori di Mad Men, che prima, durante e dopo il lavoro c’è l’individuo con la sua insanabile necessità di contatto e di rapporto con l’Altro. Tutte le agenzie che si sono susseguite, i nomi sulla porta, le sconfitte e le rivincite, erano mere distrazioni dal vero obiettivo della vita di ognuno di loro, di noi: trovare pace, equilibrio e serenità. Tutti elementi che di sicuro non possono provenirci dalla carriera, in quanto transitoria e materiale.
Dal finale di Mad Men mi è giunta una sensazione di perdita di tempo, quel tempo che tutti i personaggi hanno impiegato per girare in tondo prima di capire cosa veramente volessero e chi fossero in realtà. E per questo Mad Men ha la valenza di un’opera letteraria, di un romanzo sociale, perché attraverso i suoi personaggi narra la perenne e congenita crisi identitaria dell’uomo moderno, di quell’uomo che ha perso gli ancoraggi della propria identità e naviga confuso nella nebbia, procedendo a tentoni e scambiando fatui echi di sirene per miraggi di porti sicuri.
Ovviamente non sto parlando di una demonizzazione del concetto di lavoro. C’è il concetto di lavoro come famiglia, come ambito in cui si replicano quei sentimenti che spesso, proprio a causa dei ritmi incessanti, si perdono al di fuori degli orari d’ufficio. In Man Men c’è, ancora, anche l’altra faccia della medaglia, ossia quella del lavoro come riscatto da una sudditanza sociale e sessista, rappresentato oltre che da Peggy, da Joan Harris. E c’è anche il prezzo che si paga da sempre per questo riscatto, soprattutto per le donne: la solitudine. Ma a ben vedere la solitudine, lungo tutta la serie, sembra il prezzo pagato da ogni personaggio in nome della carriera sfrenata e spinta. Chi prima chi dopo divorzia, si sbronza, si perde, si arrende. E si ritrova col portafoglio pieno e la casa vuota. E, a ben vedere, a nessuno di loro questo basta.
L’uomo che cade dal palazzo, nell’intro, è l’uomo moderno impersonato da Don Draper. Ma noi lo vediamo di spalle e senza volto, come le opere di Magritte, perché quell’uomo siamo noi e quella caduta è il nostro fallimento. Per aver innalzato carriera e denaro a nuovi idoli, per aver dimenticato come si scambino quattro chiacchiere con un amico, o con una donna, senza bisogno di alcool o altro. Per aver dimenticato cosa vuol dire essere, sì, professioniste, ma anche donne, madri e magari anche più deboli degli uomini. Perché, no, non c’è alcun male. Siamo diversi, e per questo ci completiamo.
È questo il potere disarmante di Mad Men. Ci prende a braccetto partendo da tutti gli stereotipi della cultura dominante degli anni ’50, ci conduce attraverso tutte le rivoluzioni della controcultura degli anni ’60, ci fa gioire delle conquiste, dei diritti, delle rivoluzioni, ci mostra il futuro e le sue immense possibilità, e poi ci fa approdare agli anni ’70, spossati, soddisfatti ma anche un po’ delusi. Ci mostra come il ciclo si ripete, come conquistatori e rivoluzionari spesso finiscano per dimenticare da dove vengano e prendano gusto a stare dall’altra parte della barricata. E tutto questo per dimostrarci come le grandi e vere rivoluzioni siano quelle interiori, i mutamenti e le introspezioni che le persone sono in grado di fare ogni qual volta mollano la presa, si lasciano andare, ma soprattutto si aprono all’altro e ascoltano. Anche solo per sentirsi dire “addio”.
Mad Men non poteva, però, concludersi senza la sua punta di sarcasmo e senza rapirci, ancora una volta, con quel “detto non detto” che ha caratterizzato tutte e sette queste meravigliose stagioni. Ed è così che le ultime inquadrature di Don lo vedono nuovamente in pantaloni e camicia, a fare yoga in comunità, tra capelloni e hippie, sbarbato, ed evidentemente ripresosi dalla crisi sessantottina del giorno prima. In sottofondo le parole del guru: “Un giorno nuovo porta nuove speranze. Le vite che abbiamo vissuto… le vite che dobbiamo ancora vivere. Un nuovo giorno. Nuove idee. Un nuovo te.” Primo piano sul volto di Don e un campanellino in concomitanza con un suo sorrisetto beffardo. Stacco e parte, come sigla conclusiva, il video dello spot della Coca Cola del 1970: capelloni, hippie e “rivoluzionari” che stringono in mano il prodotto padre del capitalismo, la bottiglietta della Coca Cola.
Come non ricollegare, allora, l’ultima telefonata tra Peggy e Don in cui lei gli domanda “non vuoi fare lo spot per la Coca Cola?”, le nuove idee di cui parla il guru, il sorrisetto illuminato di Don e lo spot conclusivo?
Chi stavamo guardando in quell’ultima inquadratura? Un nuovo Don, il vecchio Dick o il solito Don post crisi identitaria? A voi le speculazioni! E l’ultimo brindisi lo dedico Matthew Weiner, con i più sentiti ringraziamenti.
PS. Avrei potuto parlare di Roger, di Betty, di Sally e delle innumerevoli vene letterarie di questa serie che più che una serie è un compendio di tipi umani e storie universali. Ma come rendere giustizia in qualcosa che sia meno di una tesi di dottorato?! Cheers!
Qui trovate, a chiusura del cerchio di questa settima stagione, l’articolo al midseason finale dell’anno scorso.
Valeria Susini
Lola23
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